La sfida tecnologica tra Cina e Stati Uniti non si gioca solo sui chip avanzati o sui supercomputer, ma sempre di più sull’intelligenza artificiale. Secondo The Economist, Pechino ha compiuto un salto in avanti con lo sviluppo di sistemi come DeepSeek-R1, capaci di generare applicazioni con minori risorse informatiche e costi ridotti rispetto ai modelli americani. Una “arte di arrangiarsi” che rende l’AI cinese più accessibile e diffusa, ma che solleva interrogativi politici e sociali.
Innovazione a basso prezzo, ma con rischi elevati
Il governo di Xi Jinping spinge perché applicazioni economiche e di massa diventino il motore di una nuova supremazia tecnologica. L’AI non è soltanto un settore strategico, ma uno strumento di controllo sociale: dalla profilazione dei cittadini alla valutazione dei rischi criminali, fino al monitoraggio delle minoranze etniche, come nel caso degli uiguri nello Xinjiang. Qui, dal 2014, sistemi di riconoscimento facciale e sorveglianza predittiva segnalano movimenti sospetti in tempo reale, avvisando la polizia.
Il doppio volto dell’intelligenza artificiale
L’AI cinese mostra due facce. Da un lato, una tecnologia più democratica sul piano economico, che potrebbe diffondersi rapidamente in Asia, Africa e nei Paesi in via di sviluppo, attratti dai costi contenuti. Dall’altro, un approccio che intreccia innovazione e autoritarismo, con applicazioni invasive della privacy e potenzialmente discriminatorie.
La corsa globale e il paragone con la bomba atomica
Alcuni analisti paragonano la corsa all’AI alla gara nucleare del Novecento: chi conquisterà la leadership potrà determinare gli equilibri geopolitici del futuro. C’è chi ridimensiona i timori, sostenendo che l’AI diventerà presto una tecnologia di uso comune, come l’elettricità o i computer. Ma l’uso che la Cina sta già facendo – dalla sorveglianza interna alla vendita di sistemi di controllo a Paesi africani – dimostra che la posta in gioco va ben oltre il business.
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