La partita delle candidature della sinistra alle prossime elezioni regionali si è chiusa, ma lascia dietro di sé più interrogativi che certezze. Sul piano amministrativo i profili in campo non mancano: tre candidati vantano solide esperienze di governo locale e altri due percorsi professionali di rilievo. Ma sul piano democratico l’operazione appare fragile, con segnali che destano preoccupazione.
Il primo riguarda la scarsità di classe dirigente interna. Due partiti che insieme contano oltre nove milioni di elettori hanno dovuto pescare da Strasburgo ben tre candidati, tutti eurodeputati eletti appena un anno fa. Una scelta che mette in luce la ristrettezza del bacino politico disponibile e alimenta l’idea di partiti sempre più oligarchici, incapaci di far emergere leadership diffuse.
Il secondo segnale critico è il meccanismo del “trasferimento” dall’Europa alle Regioni. Non una scelta maturata nei territori, ma un comando deciso dai segretari nazionali, che trattano candidature e carriere come pedine su una scacchiera. Un modello verticistico che svuota il ruolo dei militanti e accentua la distanza tra Paese reale e Paese legale, radicando lo scetticismo diffuso verso la politica.
Infine, il terzo elemento problematico riguarda la prospettiva europea. Davvero la politica di tre regioni italiane può valere più della presenza nell’assemblea parlamentare continentale? In un momento in cui l’Unione europea dovrebbe rafforzare la propria voce, il segnale dato dai due partiti della coalizione appare contraddittorio: si sottraggono risorse qualificate al dibattito comunitario per inseguire la vittoria in competizioni locali.
Le considerazioni sulle candidature si intrecciano così con una riflessione più ampia sul bilancio dei 55 anni di regionalismo in Italia. Nati come enti legislativi secondo la visione costituzionale, le Regioni si sono progressivamente trasformate in grandi corpi amministrativi, con la sanità a drenare tre quarti della spesa e una presidenzializzazione che ha personalizzato la competizione politica. Le promesse di autonomia si sono spesso ridotte a slogan o a differenziazioni minime, mentre si è perso il legame con la missione originaria: bilanciare i poteri dello Stato e dare forza legislativa ai territori.
Alla luce di queste dinamiche, la vicenda delle candidature non è solo un episodio elettorale. È lo specchio di una crisi strutturale della rappresentanza politica e della democrazia interna ai partiti, che si riflette anche nell’assetto regionale del Paese. Forse è il momento di una verifica complessiva, per misurare punti di forza e debolezza delle Regioni e ridefinirne il ruolo, prima che il divario tra istituzioni e cittadini diventi irrimediabile.
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