C’era una volta il Made in Italy. Quello vero. Fatto di mani esperte, di filati nobili, di territori che intrecciavano bellezza e saper fare. Oggi, a guardare le inchieste giudiziarie che stanno scuotendo le fondamenta della moda italiana ed europea, resta solo l’etichetta. E una narrazione sempre più lontana dalla realtà produttiva.
Nelle ultime settimane, una raffica di indagini e denunce ha travolto marchi simbolo del lusso internazionale: da Max Mara a Loro Piana, da Valentino a Dior, fino a Giorgio Armani Operations Spa e Alviero Martini. Tutti accomunati da una dinamica ormai nota: prodotti venduti a migliaia di euro, fabbricati per pochi spiccioli in laboratori opachi, talvolta illegali, spesso sfruttando lavoratori pagati 4 euro l’ora e costretti a turni massacranti.
Il paradosso del lusso: giacche a 3.000 euro, operai a 4 l’ora
I casi emersi sono emblematici. Una giacca Loro Piana da oltre 3.000 euro realizzata in laboratori cinesi clandestini. Borse Dior vendute sopra i 2.000 euro ma pagate appena 53 euro al fornitore. Dipendenti Max Mara definiti nei messaggi aziendali come “mucche da mungere”. Un sistema che ha trasformato l’eccellenza artigianale in catene di subappalto spietate, dove la qualità ha lasciato il posto al margine di profitto.
Per Stefania Saviolo, docente di management alla Bocconi, il punto è culturale: «Il Made in Italy non esiste più. I brand non sono più italiani e si è persa quella cultura industriale che dava identità e legame con i territori. Il prodotto non è più centrale, si vende un logo, non un abito che fa sognare».
Dalla tradizione alla speculazione: cosa resta del Made in Italy
Il passaggio da imprese familiari a colossi finanziari francesi ha generato una frattura profonda. Il legame con l’artigianato si è spezzato, l’innovazione ha lasciato spazio alla standardizzazione. Le maison vivono ormai di profumi, cinture e borse logo, mentre il capo d’abbigliamento è diventato un prodotto accessorio.
E neppure la strategia del revival degli archivi funziona più: i capi iconici degli anni ’80 e ’90 si comprano direttamente nel circuito vintage, non più in boutique. «Paradossalmente – osserva Saviolo – dovrebbero imparare da Zara, che ha riportato il prodotto al centro, con creatività e innovazione stagionale».
La crepa nel mito e il ruolo della normativa europea
A rendere il quadro ancora più critico è la normativa europea, che consente di etichettare come “Made in Italy” un capo quasi interamente prodotto all’estero, purché riceva una minima lavorazione finale nel nostro Paese. Una falla regolamentare che, unita alla debolezza negoziale dell’Italia in sede europea, ha svuotato di senso la dicitura stessa.
Il caso è esploso anche a livello internazionale: dal Guardian al Financial Times, da Bloomberg a Reuters, i media di tutto il mondo parlano di sfruttamento e opacità nella moda italiana, con un danno d’immagine incalcolabile per un settore che da sempre rappresentava uno dei pilastri del soft power nazionale.
Le reazioni della politica e del settore
Il ministro delle Imprese Adolfo Urso ha annunciato l’imminente introduzione di una norma per certificare legalità e sostenibilità delle imprese moda. La ministra del Lavoro Marina Calderone, da parte sua, ha promesso “massima intransigenza” contro lo sfruttamento, con più ispettori, il ripristino del reato di somministrazione illecita di manodopera e l’estensione dell’assegno di inclusione alle vittime di caporalato che collaborano con la giustizia.
Nel frattempo, anche gli attori industriali iniziano a muoversi. La Camera Nazionale della Moda Italiana ha firmato un protocollo per aumentare trasparenza e controlli. Confindustria Moda chiede un piano industriale strutturale con audit obbligatori, incentivi ai campionari e tracciabilità digitale, tramite blockchain e passaporto del prodotto.
L’impatto sul mercato: la crisi dei colossi
I segnali di crisi si riflettono già nei bilanci. HSBC ha registrato un aumento del 52% dei prezzi nel lusso europeo rispetto al 2019, ma il consumatore è oggi più attento, meno disposto ad accettare rincari indiscriminati. I numeri parlano chiaro: LVMH ha perso oltre il 25% da inizio anno, toccando i minimi degli ultimi sette anni. Kering, che controlla Gucci, ha visto calare le vendite organiche del 10% e l’utile netto del 36%.
Un produttore toscano che lavora per le grandi maison rivela: «Dopo gli scandali, qualcosa si muove. I brand sono allarmati, temono nuovi titoli di giornale. Ma quanto sarà reale questo cambiamento, è tutto da vedere».
Un’etichetta svuotata di senso?
Se non ci sarà un’inversione di rotta – culturale prima ancora che produttiva – il rischio è che il Made in Italy diventi solo uno slogan, buono per le campagne pubblicitarie ma privo di autenticità. Un simbolo svuotato, che non incarna più l’identità, la qualità, il saper fare che l’ha reso celebre nel mondo.
E se cade il Made in Italy, non crolla solo un settore, ma l’idea stessa che l’Italia possa ancora offrire qualcosa di unico, diverso e inimitabile. E questa, oggi più che mai, non è solo una questione economica. È una questione nazionale.
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