ROMA — Ogni convegno sull’intelligenza artificiale finisce con lo stesso mantra: più tempo per la creatività, meno per le incombenze noiose. I sostenitori della rivoluzione digitale annunciano un futuro in cui gli algoritmi si occuperanno delle mansioni ripetitive, mentre gli esseri umani potranno finalmente dedicarsi ad attività strategiche, progettuali, creative. Ma è davvero così semplice?
A ben guardare, il quadro è più complesso di quanto gli slogan lascino intendere. Perché se in teoria l’AI libera tempo prezioso, nella pratica impone una radicale riorganizzazione dei processi lavorativi e dei ruoli professionali. Non si tratta soltanto di redistribuire i compiti: è necessario ripensare il modello stesso di azienda e di lavoro costruito negli ultimi vent’anni.
Chi oggi è già nel mondo professionale dovrà adattarsi a una logica in cui uomini e macchine collaborano in team multidisciplinari, in un continuo gioco di ingegneria dei processi. L’approccio “AI First”, che pone l’intelligenza artificiale al centro dell’attività produttiva, richiede infatti di ridefinire compiti, divisioni e obiettivi. E questo cambiamento non avrà gli stessi tempi né lo stesso impatto per tutti.
Il rischio di un eterno “stage digitale”
Per i più pessimisti, il nuovo paradigma porterà a una lunga fase di controllo umano della qualità dei risultati generati dall’intelligenza artificiale. Esperti e manager senior dovranno supervisionare le macchine, istruendole e correggendole, prima di potersi affidare ai loro automatismi. È la cosiddetta fase human in the loop: l’uomo interviene all’inizio e alla fine del processo, alimentando e verificando il lavoro dell’algoritmo.
Solo successivamente — e nessuno è in grado di prevedere quando — si entrerà nella fase di vera co-evoluzione tra AI e lavoratori, come immaginano i teorici più ottimisti. Una fase che con tutta probabilità riguarderà soprattutto le nuove generazioni, già abituate a utilizzare strumenti come ChatGPT per i compiti di scuola e per studiare.
L’allarme per i giovani cervelli
Proprio su questo punto si concentra una recente ricerca del Media Lab del MIT, che solleva dubbi importanti sull’impatto dell’uso precoce dei modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM) sulle capacità cognitive dei più giovani. Lo studio, ancora in attesa di peer review e condotto su un campione limitato, suggerisce che l’abuso di queste tecnologie potrebbe compromettere lo sviluppo dell’autonomia di pensiero e delle abilità di ragionamento.
Secondo l’autrice della ricerca, Nataliya Kosmyna, i cervelli in formazione sarebbero i più vulnerabili agli effetti di una delega eccessiva all’intelligenza artificiale. Il rischio è quello di abituarsi troppo presto alla comodità di risposte facili e immediate, a scapito dell’elaborazione critica e della costruzione autonoma del sapere.
Un futuro più creativo, ma più fragile?
Il paradosso, dunque, è dietro l’angolo: avremo più tempo libero dai compiti ripetitivi, ma non è detto che saremo davvero più preparati a utilizzarlo in modo intelligente e costruttivo. Il lavoro del futuro sarà, forse, più creativo, ma le competenze necessarie per gestirlo non si improvvisano. Serviranno nuove capacità, non solo digitali ma anche cognitive, e un’attenzione particolare alle ricadute sociali, psicologiche e formative di questa rivoluzione.
Perché il rischio vero non è solo quello di perdere posti di lavoro, ma di perdere capacità, senso critico e autonomia di pensiero. E in una società iperconnessa e automatizzata, è una prospettiva da non sottovalutare.
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