19 Maggio 2025 - Novità giurisprudenziali

Patto di non concorrenza: nullo se limita troppo e paga troppo poco

La Corte di Cassazione ribadisce che per essere valido, un patto di non concorrenza deve rispettare limiti chiari e garantire un compenso proporzionato. In caso contrario, il divieto rischia di ledere il diritto al lavoro dell’ex dipendente.

Il divieto di concorrenza è una regola ben nota nel diritto del lavoro: durante il rapporto, il dipendente non può intraprendere attività che confliggano con gli interessi del datore. Ma cosa accade se questo vincolo viene esteso oltre la cessazione del contratto? In questi casi, serve un accordo specifico — il patto di non concorrenza — disciplinato dall’articolo 2125 del Codice Civile, che impone alcuni requisiti essenziali per evitare abusi.

Tra questi, il patto deve essere messo per iscritto, prevedere un corrispettivo a favore del lavoratore e stabilire limiti precisi su durata, ambito territoriale e oggetto del divieto. Se queste condizioni vengono ignorate o gestite in modo squilibrato, il patto può essere dichiarato nullo.

Il caso della clausola “mobile”

Un caso recente, finito davanti alla Corte di Cassazione (ordinanza n. 11765/2025), ha confermato la nullità di un patto di non concorrenza stipulato da un ex dipendente di una banca. Il patto vietava al lavoratore, per 12 mesi dopo il termine del contratto, di svolgere qualsiasi attività nei settori bancario, assicurativo e finanziario. Un divieto che, di fatto, comprometteva quasi del tutto la possibilità di trovare una nuova occupazione nel proprio settore di competenza.

Il vero nodo, però, riguardava l’estensione territoriale della clausola: il patto copriva la Regione Emilia-Romagna e altre eventuali regioni di assegnazione del lavoratore, lasciando di fatto al datore di lavoro la possibilità di ampliare o spostare l’ambito territoriale del divieto in modo discrezionale. Una clausola “mobile” che rendeva impossibile per il lavoratore conoscere con certezza l’effettiva portata del vincolo al momento della firma.

Compenso troppo basso, patto sbilanciato

A fronte di limitazioni così ampie, il compenso riconosciuto al dipendente era pari al 10% della retribuzione annua lorda: un importo ritenuto dai giudici del tutto sproporzionato rispetto al sacrificio imposto. Sia in primo grado sia in appello, i tribunali avevano accolto la domanda del lavoratore, dichiarando nullo il patto per violazione dei limiti fissati dall’art. 2125 c.c.

La Suprema Corte ha confermato questa linea, ribadendo che i limiti di oggetto, durata e area geografica devono essere fissati o comunque determinabili fin dal momento della stipula. Inoltre, il compenso pattuito deve essere adeguato al pregiudizio economico derivante dall’obbligo di astensione, e non può essere simbolico o irrisorio.

Il principio confermato dalla Cassazione

Richiamando precedenti consolidati (Cass. 9256/2025 e Cass. 33424/2022), la Cassazione ha sottolineato che il compenso deve rispettare i criteri previsti dall’art. 1346 c.c.: essere possibile, lecito, determinato o determinabile, e soprattutto non sproporzionato rispetto al sacrificio richiesto. La validità del patto, infatti, va sempre valutata alla luce della concreta compressione delle opportunità professionali imposte al lavoratore.

Un monito per datori di lavoro e HR

Questo intervento della Cassazione offre un chiaro richiamo alle aziende e agli uffici risorse umane: i patti di non concorrenza devono essere strumenti di tutela ragionevole, non meccanismi di controllo eccessivo. Stabilire divieti vaghi o estesi senza garantire un compenso adeguato non solo espone al rischio di nullità della clausola, ma mina il principio di libertà del lavoro sancito dalla Costituzione.


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