L’intelligenza artificiale sta progressivamente trasformando il funzionamento dei sistemi giudiziari, e tra le applicazioni più diffuse c’è l’anonimizzazione delle decisioni. Un intervento, almeno nelle intenzioni, pensato per proteggere la riservatezza dei cittadini senza intaccare il diritto collettivo a conoscere le sentenze. Tuttavia, un recente caso italiano ha mostrato come questo equilibrio sia tutt’altro che scontato.
Il caso della banca dati pubblica
Con la nascita della nuova Banca dati pubblica (Bdp), che ha sostituito l’Archivio giurisprudenziale nazionale, il Ministero della Giustizia ha cercato di offrire un accesso più diretto al patrimonio giurisprudenziale italiano. Ma sin dal debutto, avvocati, studiosi e operatori del settore hanno segnalato un’anomalia: le sentenze pubblicate risultavano private non solo dei nomi delle parti coinvolte — come prevedibile — ma anche di date, riferimenti normativi, precedenti giurisprudenziali e persino delle informazioni essenziali sui fatti di causa.
Una scelta automatica e priva di supervisione che ha finito per svuotare le decisioni della loro funzione orientativa, rendendole incomprensibili e inutilizzabili per fini di studio, difesa e confronto giuridico. Una privacy estrema che, invece di tutelare i diritti, li ha compromessi.
Il giudizio del Tar
La questione è arrivata sul tavolo del Tar del Lazio, che con la sentenza n. 7625 del 17 aprile 2025 ha messo un punto fermo: l’anonimizzazione delle sentenze non può ridursi a una banale operazione tecnica automatizzata. Ogni decisione giudiziaria — ha ricordato il Tribunale — deve rimanere comprensibile nel suo percorso motivazionale e riconoscibile nel contesto concreto a cui si riferisce. Privare una sentenza delle sue coordinate essenziali significa tradire il principio cardine del diritto, quello che lega il fatto concreto alla norma.
Inoltre, il Tar ha evidenziato come questa prassi possa entrare in conflitto con principi garantiti dalla Costituzione italiana e da convenzioni internazionali. L’articolo 111 della Costituzione, così come l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, tutelano non solo la pubblicità delle decisioni, ma anche la loro effettiva conoscibilità e intelligibilità.
Una questione di governance algoritmica
Al di là del caso specifico, la vicenda tocca un nodo più ampio: la gestione dei sistemi di intelligenza artificiale nei processi decisionali pubblici. Attualmente, secondo la bozza dell’AI Act europeo, i sistemi di anonimizzazione automatica delle decisioni giudiziarie non rientrano tra quelli considerati “ad alto rischio”. Una scelta che, alla luce di quanto accaduto in Italia, appare discutibile.
Il punto non è ostacolare l’innovazione digitale nei tribunali, ma affiancare a queste tecnologie adeguati strumenti di controllo: supervisione umana, diritto alla spiegazione delle decisioni automatizzate, tracciabilità degli interventi sugli atti pubblici e valutazione preventiva dell’impatto sui diritti fondamentali.
Il pericolo di una giustizia senza volto
Il rischio più grande è che la giustizia diventi una “scatola nera” inaccessibile e impersonale, dove il diritto alla privacy si trasformi in pretesto per oscurare dati che invece andrebbero resi pubblici per garantire controllo democratico e certezza del diritto.
Come ha ammonito la sentenza, non è la tecnologia in sé a rappresentare un pericolo, ma il suo impiego acritico e automatico. Una giustizia davvero trasparente deve poter essere letta, compresa e verificata da tutti. Perché, in democrazia, la legge non può solo essere applicata: deve essere visibile e intellegibile.
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