In una recente sentenza (n. 47/2025), il Tribunale di Salerno si è espresso sul diritto di accesso ai dati personali, offrendo un’interpretazione che richiama l’equilibrio tra tutela della riservatezza e corretto esercizio dei diritti dell’interessato. Il caso riguardava la richiesta, da parte dell’avvocato di un utente, della copia del contratto di utenza telefonica, richiesta respinta dalla compagnia per assenza di delega scritta.
Il giudice di secondo grado ha dato ragione all’azienda, ritenendo legittimo il rifiuto alla luce del Codice privacy nella versione antecedente al GDPR, evidenziando l’obbligo di verifica della legittimazione di chi richiede l’accesso a dati riservati. L’art. 9 del vecchio Codice, sebbene oggi abrogato, fissava regole precise su deleghe, autenticazioni e modalità di verifica dell’identità.
Con l’entrata in vigore del Regolamento (UE) 2016/679, tali prescrizioni puntuali hanno lasciato spazio a un sistema fondato sul principio di accountability, che affida al titolare del trattamento il compito di definire in autonomia – ma con responsabilità – le modalità per garantire l’esercizio dei diritti, inclusa la verifica dell’identità dell’interessato.
Lo European Data Protection Board (EDPB), nelle sue Linee guida 1/2022 e nell’indagine 2024 sull’attuazione del diritto di accesso, ha evidenziato come uno degli ostacoli principali all’effettività del diritto sia rappresentato da richieste eccessive in termini di documentazione o da procedure non codificate. La raccomandazione è chiara: evitare formalismi sproporzionati e adottare policy interne trasparenti e documentate per assicurare risposte tempestive e legittime.
La questione centrale, oggi, non è solo garantire la sicurezza dei dati, ma anche rendere accessibile e concreto un diritto fondamentale riconosciuto dall’art. 8 della Carta dei diritti dell’Unione europea. Tra sicurezza e semplificazione, si gioca una delle partite più delicate della protezione dei dati personali nel contesto digitale contemporaneo.
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