È bastata la notizia della rinuncia al mandato da parte dell’avvocato di un giovane arrestato per l’omicidio di una ragazza per scatenare un’ondata di commenti, interpretazioni e polemiche. Alcuni titoli di giornale hanno affiancato l’ammissione del ragazzo alla decisione dell’avvocato di lasciare l’incarico, suggerendo implicitamente che l’abbandono fosse una forma di condanna morale, un segnale di ripulsa verso il presunto autore di un crimine efferato. Ma la realtà è molto più semplice — e molto più seria.
Come spiegato da fonti vicine al caso, il legale in questione è un civilista, non un penalista. La sua decisione di non proseguire nella difesa deriva da una valutazione professionale: non è la sua materia, non ha la competenza specifica per affrontare una vicenda tanto delicata. È, anzi, un gesto di rispetto nei confronti del cliente e del processo stesso.
Occorre allora richiamare alcuni principi fondamentali del diritto penale e della deontologia forense. Primo: ogni imputato ha diritto a una difesa tecnica, obbligatoria nel processo penale. Non si tratta solo di un diritto individuale, ma di una garanzia per l’intera collettività, come ha affermato la Corte costituzionale. È ciò che spinse il presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino, Fulvio Croce, a difendere d’ufficio i brigatisti — pagandone il prezzo con la vita.
Ma il rapporto tra difensore e assistito è di natura fiduciaria. Un avvocato di fiducia può rinunciare all’incarico anche senza una giusta causa, mentre il difensore d’ufficio, nominato dallo Stato, può essere sostituito solo per motivi fondati. In ogni caso, la rinuncia non ha effetto immediato: il legale deve assicurarsi che il cliente non resti privo di tutela.
C’è poi un altro principio spesso trascurato: un avvocato ha il dovere deontologico di assumere solo incarichi per cui possiede la preparazione necessaria. Nessuno dovrebbe stupirsi, quindi, se un civilista si fa da parte in un processo penale.
Il vero punto è che la difesa di un imputato non è mai un atto di approvazione o giustificazione del reato. L’avvocato non è un complice né un moralista: è un professionista che opera con razionalità e competenza. Se non si sente in grado di farlo, o se teme che le proprie emozioni possano interferire, ha il dovere di farsi da parte. Non per giudicare il cliente, ma per garantirgli la miglior difesa possibile.
Un altro caso, di tono ben diverso, ha fatto notizia negli stessi giorni: un ministro della Repubblica ha cambiato difensore durante il processo. Il nuovo penalista, subentrato a ridosso dell’udienza, ha chiesto e ottenuto un rinvio per studiare gli atti. Nulla di straordinario: accade spesso nelle aule dei tribunali. E solo il giudice, in quel momento, può valutare se la richiesta sia fondata o strumentale.
In conclusione, il diritto di difesa è una colonna portante della giustizia. Confonderlo con l’adesione al comportamento dell’imputato è non solo un errore, ma un pericoloso fraintendimento del senso stesso del processo penale.
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