Non sempre il mancato deposito di documenti da parte di un avvocato determina la sua responsabilità professionale, specie se tale omissione non è la causa diretta del rigetto della domanda di risarcimento. È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 475, depositata oggi, in merito al caso di un ex dipendente di Poste Italiane che contestava la gestione legale della sua causa.
La vicenda
Il lavoratore aveva agito in giudizio per la dichiarazione di illegittimità di contratti a termine succedutisi nel tempo. Persa la causa in primo grado, aveva firmato un accordo transattivo con Poste Italiane e, successivamente, citato il suo avvocato per danni, accusandolo di non aver adempiuto correttamente all’incarico.
La richiesta è stata rigettata sia dal Tribunale sia dalla Corte d’appello di Lecce, che ha attribuito al lavoratore la responsabilità della decisione di non proporre appello. Inoltre, secondo la Corte d’appello, il giudizio prognostico escludeva che, anche con il deposito dei documenti mancanti, il risarcimento sarebbe stato riconosciuto.
I motivi del rigetto
Il rigetto della domanda di risarcimento non si basava solo sull’omesso deposito della dichiarazione dei redditi (necessaria a verificare l’esistenza di un’altra attività lavorativa), ma anche sul lungo intervallo temporale — oltre quattro anni — trascorso tra la scadenza del contratto e l’inizio dell’azione legale. Questo periodo, secondo i giudici, era indicativo di una rinuncia al rapporto di lavoro o comunque di una situazione incompatibile con il risarcimento richiesto.
La posizione della Cassazione
La Terza sezione civile ha confermato il ragionamento della Corte d’appello, ritenendo che l’omissione del professionista non fosse la causa determinante del rigetto della domanda. La Corte ha inoltre affrontato una questione relativa alle spese di giudizio, specificando che la condanna del ricorrente a pagarle non poteva essere evitata sulla base della sola “virtuale infondatezza” della domanda di garanzia contro un terzo.
Le spese processuali
Secondo la Cassazione, il rimborso delle spese sostenute dal terzo chiamato in causa è giustificato se la chiamata è necessaria rispetto alla domanda principale, anche se quest’ultima risulta infondata. Diversamente, il costo ricade sulla parte che ha chiamato il terzo solo se l’iniziativa è stata arbitraria, ossia priva di una ragionevole connessione con la causa principale.
Conclusione
Nel caso specifico, il ricorrente non ha dimostrato l’arbitrarietà della chiamata in garanzia, confermando la correttezza delle decisioni delle precedenti istanze. La Suprema Corte ribadisce così i principi di responsabilità dell’avvocato, legati non solo alla condotta professionale, ma anche alla rilevanza causale delle omissioni nel contesto complessivo della controversia.
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