I contratti Google Drive, DropBox e iCloud Apple contengono clausole vessatorie, interviene l’Antitrust
L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato accerta la sussistenza di una serie di violazioni alle disposizioni del Codice del Consumo. In particolare, in materia di clausole vessatorie relative ad alcune presenti all’interno dei contratti Cloud. A tal proposito, il problema è lo squilibrio di potere contrattuale ai danni degli utenti, che lo segnalano.
Il caso delle clausole vessatorie nei contratti Cloud dei colossi dei servizi informatici
A seguito del riconoscimento delle clausole vessatorie nei contratti di Google Drive, DropBox e iCloud Apple, l’Associazione Nazionale Utenti di Servizi pubblici, che accoglie le segnalazioni. Ecco com’è andata.
Il 20 agosto 2020, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) avviava alcuni procedimenti contro le seguenti società:
- Google Drive (procedimento CV194);
- DropBox (procedimento CV195);
- iCloud Apple (procedimento CV196).
Ognuno di essi in qualità di professionista, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. c), del Decreto Legislativo del 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del Consumo), offrono servizi di:
- File hosting;
- Cloud storage;
- Sincronizzazione automatica dei file;
- Cloud personale e software client.
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In particolare, gli utenti avvisavano che tali piattaforme violavano di diverse disposizioni del Codice del Consumo. Ossia, presentavano all’interno dei propri termini di servizio per l’utilizzo delle piattaforme Cloud alcune clausole fumose. In effetti, a detta dei consumatori queste lasciavano spazio a margini di potenziale abuso nella:
- Preclusione per il consumatore della possibilità di esercitare pienamente la propria libertà di autodeterminazione contrattuale. In particolare, in relazione alla sottoscrizione delle condizioni generali e con riferimento alla determinazione del contenuto;
- Alterazione dell’equilibrio tra le parti contrattuali.
Antitrust interviene sulle segnalazioni degli utenti: contratti con clausole vessatorie nei servizi Cloud
Successivamente, Google Drive e DropBox predisponevano delle modifiche ad alcune delle clausole in esame. E dunque, tali modifiche sanavano il carattere di vessatorietà posto al vaglio dell’Autorità. Invece, iCloud Apple si limitava ad evidenziare i profili di liceità delle clausole sottoposte a controllo.
Insomma, per ognuno dei colossi dei servizi informatici, l’AGCM dispone la pubblicazione dei provvedimenti emessi sulle rispettive home page dei siti internet. Pena l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 50.000 euro.
Ora, notiamo che il ragionamento dell’Autorità si basa su due considerazioni fondamentali. La prima è di natura prettamente giuridica – normativa e giurisprudenziale –; la seconda è di carattere meramente logico e notorio. Ossia:
- l’AGCM ricorda che secondo l’orientamento della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, “il sistema di tutela del consumatore in materia di clausole vessatorie istituito dalla direttiva 93/13/CEE, il cui recepimento è avvenuto tramite gli artt. 33 e ss. del Codice del Consumo, è fondato sul presupposto che il consumatore si trovi in una situazione di inferiorità rispetto al Professionista per quanto riguarda sia il potere nelle trattative che il grado di informazione; nella sua costante giurisprudenza, la richiamata Corte ha sottolineato la natura e l’importanza dell’interesse pubblico costituito dalla tutela dei consumatori, proprio in ragione di siffatta posizione di inferiorità, situazione che li induce ad aderire alle condizioni predisposte dal Professionista senza poter incidere sul contenuto delle stesse”.
- Si assume che i servizi offerti da tali Società si scelgano con sempre maggior frequenza dai consumatori, come unico strumento di memorizzazione dei dati. Questi ultimi possono essere di svariata tipologia, specialmente di carattere personale. Perciò, costituiscono informazioni meritevoli di una protezione rafforzata e favorevole all’utente.
Si accerta la violazione delle disposizioni del Codice del Consumo
A questo punto, è interessante notare che i tre provvedimenti hanno in comune l’accertamento in positivo della violazione del medesimo disposto normativo. Ovvero, l’art. 33, commi 1 e 2, lett. m), del Codice del Consumo. Infatti, i contratti Cloud in esame prevedevano il diritto del Professionista di modificare unilateralmente, in qualsiasi momento, le condizioni originariamente pattuite dalle parti.
Secondo l’Autorità, tali clausole si pongono apertamente in violazione della normativa italiana ogniqualvolta esse non prevedano espressamente:
- la modalità per la comunicazione delle variazioni unilaterali;
- il motivo a fondamento della modifica (preferibilmente per iscritto);
- un termine certo di almeno 15 giorni per la comunicazione delle variazioni unilaterali di portata sostanziale.
Praticamente, tale facoltà si concretizzava nella prassi dei Professionisti di apportare modifiche al costo del servizio. Dunque, l’Autorità coglieva l’occasione per affermare un importante principio di diritto: non dovrebbe sussistere alcuna distinzione tra utenti paganti e non paganti. Infatti, il consumatore sottoscrive in entrambi i casi le condizioni contrattuali che vengono mantenute fino alla cancellazione del servizio.
Effettivamente, tra i due casi varia solo lo spazio di archiviazione messo a disposizione e le connesse condizioni economiche. Perciò:
“la modifica delle clausole contrattuali o del prezzo originario (anche dal valore 0 a un valore positivo) va, dunque, sempre motivata dal Professionista e le motivazioni che potrebbero essere addotte vanno inserite nel contratto stesso ai sensi dell’art. 33, comma 2, lett. m), del Codice del consumo”.
Il secondo tipo di clausola vessatoria: esclusione di responsabilità nei contratti Cloud
Ora, vediamo che il secondo tipo di clausola vessatoria riguarda la violazione dell’art. 33, commi 1 e 2, lett. b), del Codice del Consumo. Sostanzialmente, i Professionisti escludevano qualsiasi responsabilità per il cattivo o mancato funzionamento del servizio. Inoltre, stesso atteggiamento rivolgevano anche per i danni causati al dispositivo e ai dati caricati.
Così, ponevano a carico del consumatore l’intero rischio ed escludevano qualsiasi tutela o diritto di quest’ultimo. Pertanto, senza fornire alcun tipo di garanzia. Difatti, tali clausole “a scatola chiusa” esonerano il fornitore da responsabilità per ogni eventuale errore o malfunzionamento che si dovesse verificare.
Di conseguenza, il consumatore non può chiedere alcun risarcimento nel caso in cui dovesse subire dei danni in seguito all’uso del servizio. Ad esempio, per la perdita di dati o l’interruzione dell’attività.
Dunque, secondo l’AGCM:
“ai fini dell’equilibrio tra gli interessi delle parti, il Professionista non deve ovviamente rispondere per i danni cagionati dalle azioni od omissioni che dipendono dalla condotta dolosa o colposa di terzi e/o che sfuggono alla propria sfera di controllo ma è necessario prevedere, nel contratto, diversi gradi di responsabilità del Professionista in funzione delle diverse tipologie di eventi che possano verificarsi a danno del consumatore, distinguendo tra quelli riconducibili alla Parte e quelli ad essa non riconducibili”.
La normativa in merito
Effettivamente, la graduazione di responsabilità è un principio discendente dall’art. 1225 del Codice Civile: “se l’inadempimento o il ritardo non dipende dal dolo del debitore, il risarcimento è limitato al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui è sorta l’obbligazione”.
Pertanto, l’Autorità conclude che la limitazione di responsabilità dovrebbe riguardare eventi che influenzano la prestazione dovuta determinandone la sopravvenuta impossibilità. Invece, una sua eccessiva ed arbitraria estensione riduce lo spazio di tutela sostanziale e processuale normalmente riconosciuto al consumatore.
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