Pnrr, monitoraggio giustizia: obiettivo intermedio centrato

Obiettivo intermedio raggiunto per lo smaltimento delle pendenze civili più risalenti, previsto per la fine del 2024. Nelle Corti d’appello l’arretrato del 2019 è quasi eliminato.

Lo rivela il monitoraggio degli indicatori Pnrr sull’andamento della giustizia, curato dalla Direzione generale di Statistica e analisi organizzativa del Dipartimento per l’Innovazione tecnologica della giustizia.

A fine 2024, le percentuali di riduzione rispetto ai valori baseline del 2019 sono, a fronte di un target previsto di -95%:

  • – 99,4% procedimenti civili pendenti con annualità sino al 2017 nelle Corti di appello
  • – 93,2% procedimenti civili pendenti con annualità sino al 2016 nei Tribunali

La tendenza di riduzione delle pendenze civili è positiva anche in vista dell’obiettivo di smaltimento da raggiungere entro giugno 2026.

Rispetto ai valori baseline del 2022, a fronte di un target previsto di -90%, il dato del 2024 riporta le seguenti percentuali di riduzione:

  • – 70,5% procedimenti civili pendenti con annualità compresa tra il 2018 e il 2022 in Corte di appello
  • – 73,3% procedimenti civili pendenti con annualità compresa tra il 2017 e il 2022 in Tribunale

In costante riduzione anche l’arretrato Legge Pinto che rispetto al 2019 è diminuito del 45,5% in Corte di appello e del 37,9% in Tribunale.

Con riguardo al disposition time (DT), l’indicatore di durata che misura il rapporto tra i processi pendenti e quelli definiti, i dati 2024 indicano una riduzione, rispetto al 2019, pari a:

  • – 20,1% nel settore civile
  • – 28,0% nel settore penale

Nel settore penale, infine, la variazione complessiva supera il target del -25% entro giugno 2026; più contenuto il calo in ambito civile rispetto all’obiettivo di riduzione del 40% entro la stessa scadenza.

La Relazione segnala come fattore critico l’aumento delle iscrizioni, soprattutto in alcune materie che, unitamente alla sostanziale stabilità delle definizioni, ha rallentato il trend di riduzione del DT civile nell’ultimo anno.

Il Rapporto viene inviato alla Commissione europea due volte all’anno e pubblicato, insieme con i dati di monitoraggio, sul portale istituzionale del Ministero della giustizia  e sul sito della DgStat.

“I dati di dicembre 2024 confermano l’efficacia delle misure fin qui attuate dal Ministero e la capacità degli uffici giudiziari di aggredire le pendenze civili, assicurando una riduzione dei tempi di definizione dei procedimenti civili e penali anche grazie al contributo degli Uffici per il processo” ha così commentato il Direttore Generale dell’Unità di missione per l’attuazione degli interventi del Pnrr, Davide Galli.


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Distretto di Catanzaro – Fermo sistemi giudice di pace per attività di manutenzione straordinaria

Si comunica che, per attività di manutenzione straordinaria, si procederà all’interruzione dei servizi del civile del SIGP su tutti gli uffici del giudice di pace del distretto di Corte di Appello di Catanzaro

dalle ore 14:00 alle ore 18:30 del giorno 11/04/2025.

Durante l’esecuzione delle attività di manutenzione, rimarranno attivi i servizi di posta elettronica certificata e saranno, quindi, disponibili le funzionalità relative al deposito telematico da parte degli avvocati, dei professionisti e degli altri soggetti abilitati esterni anche se i messaggi relativi agli esiti dei controlli automatici potrebbero pervenire solo al completo riavvio di tutti i sistemi.

Non sarà invece possibile consultare in linea i fascicoli degli Uffici coinvolti durante il fermo dei sistemi.

Le modifiche potrebbero interessare l’intero territorio nazionale coinvolgendo anche i sistemi di consultazione del civile.

Ricordiamo che sarà possibile depositare telematicamente con Service1 seguendo l’apposita guida disponibile al seguente LINK GUIDE


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AIGA: semplificazione dell’Amministrazione di Sostegno, a rischio la tutela dei più fragili

L’Associazione Italiana Giovani Avvocati (AIGA) esprime seria preoccupazione riguardo all’emendamento normativo proposto nell’ambito delle misure per la semplificazione normativa in tema di Amministrazione di Sostegno, interdizione e inabilitazione, che rischia di compromettere la tutela dei soggetti più fragili, come anziani, persone con disabilità e individui in condizioni di vulnerabilità.

Pur riconoscendo la dichiarata intenzione di semplificare le procedure, urge sottolineare come l’emendamento presenti gravi criticità, in quanto riduce le garanzie e indebolisce la protezione patrimoniale del beneficiario.

Il superamento degli strumenti tradizionali di tutela, poi, quali l’interdizione e l’inabilitazione, che negli anni si sono dimostrati essenziali in casi complessi, come quelli legati a disturbi psichici combinati a tossicodipendenza, sebbene miri ad assicurare a ogni soggetto “fragile” la possibilità di conservare uno spazio di autonomia, appare inopportuno e rischia di compromettere ulteriormente la ratio dell’Amministrazione di Sostegno.

AIGA ribadisce dunque la necessità di promuovere una riforma equilibrata e giusta dell’Amministrazione di Sostegno, che rappresenti un reale progresso per il sistema giuridico italiano e una garanzia concreta per i più deboli della società.

In tale ottica si muove la proposta di legge presentata dall’Associazione, che intende riconoscere la professionalità degli amministratori di sostegno, garantire un compenso equo e dignitoso, definire chiaramente le responsabilità degli amministratori, rafforzare la tutela fiscale e legale.

“Riteniamo che proprio per assicurare a ciascun soggetto una limitazione – alla propria capacità d’agire – minima e necessaria, debba essere rispettato l’ambito di ciascun istituto, ridisegnando l’amministrazione di sostegno come misura “taylor made”, che deve adattarsi alla situazione ed alle esigenze concrete. Il legislatore deve adottare un approccio responsabile e lungimirante, che tuteli i diritti dei soggetti fragili senza sacrificare la dignità professionale degli amministratori di sostegno”.


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Slitta l’aumento delle competenze ai giudici di pace: il Governo accoglie l’ordine del giorno di Lopreiato

ROMA, 9 aprile – Il Governo ha accolto un ordine del giorno presentato dalla senatrice Ada Lopreiato, capogruppo del Movimento 5 Stelle in commissione Giustizia, che impegna l’esecutivo a rinviare l’entrata in vigore dell’aumento delle competenze dei giudici di pace, inizialmente previsto per ottobre 2025. La nuova data indicata è giugno 2026.

“Da mesi chiediamo con forza che venga spostata in avanti questa scadenza, che avrebbe sancito il definitivo collasso degli uffici del giudice di pace – dichiara Lopreiato –. Gli organici amministrativi e della magistratura onoraria sono già oggi fortemente insufficienti, mentre le strutture fisiche e tecnologiche versano in condizioni critiche”.

Per la senatrice si tratta di un “primo passo importante, ma non sufficiente”. Il Governo, sottolinea, “deve attuare subito l’impegno preso e destinare risorse concrete: senza investimenti strutturali, quegli uffici non potranno funzionare in modo adeguato”.

Negli ultimi mesi, proteste e manifestazioni si sono moltiplicate in tutta Italia, dagli avvocati di Torino, Roma e Napoli, fino a Napoli Nord, dove per giovedì prossimo è prevista una nuova mobilitazione davanti al Tribunale.

“Il disagio è reale – conclude Lopreiato –. Le istituzioni hanno il dovere di ascoltare chi ogni giorno vive le difficoltà della giustizia. Continueremo a vigilare affinché le promesse del Governo si traducano in atti concreti e continueremo a proporre assunzioni straordinarie per salvare il sistema”.


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“Un passo storico che mette fine a decenni di attese e restituisce dignità, diritti e tutele a migliaia di servitori dello Stato”, ha commentato il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro delle Vedove. “Mai più figli di un Dio minore: abbiamo garantito loro stabilizzazione fino all’età pensionabile, tutele previdenziali e assistenziali, malattia, ferie, trattamento di fine rapporto e un giusto inquadramento retributivo”.

Sulla stessa linea anche il presidente della Commissione Bilancio del Senato, Nicola Calandrini (FdI): “L’approvazione di questo disegno di legge rappresenta un passo avanti decisivo verso una giustizia più efficiente e vicina ai cittadini. Finalmente viene riconosciuto, anche sotto il profilo giuridico, economico e previdenziale, il ruolo fondamentale svolto dai magistrati onorari. Si tratta di una riforma attesa da anni che garantisce certezze a una categoria troppo a lungo dimenticata”.

Due, in particolare, i punti chiave evidenziati dalla senatrice di Fratelli d’Italia Giovanna Petrenga: da un lato la definizione chiara delle funzioni e dei compiti dei giudici onorari, dall’altro la regolamentazione del loro trattamento economico e previdenziale. “Un riconoscimento – ha sottolineato – a una categoria finora molto bistrattata e che da ora in poi potrà contare su certezze. Inoltre, adeguandosi alla normativa europea, si evita una procedura d’infrazione contro l’Italia. Ne trarranno beneficio sia il corretto funzionamento della giustizia sia i cittadini”.


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Cassano invoca un nuovo umanesimo del diritto: «La giustizia non è un algoritmo, ma responsabilità umana»

La Prima presidente della Corte di Cassazione Margherita Cassano è intervenuta all’inaugurazione dell’anno giudiziario del Consiglio nazionale forense con un discorso accolto da lunghi applausi e una standing ovation. Cassano ha rilanciato il valore del dialogo tra magistratura e avvocatura, sottolineando la comune responsabilità di garantire lo Stato di diritto e la tutela effettiva dei diritti fondamentali. L’avvocato, ha detto, «è un protagonista ineliminabile della giurisdizione», portatore della domanda di giustizia in tutte le sue dimensioni, individuali e sociali. Da qui l’invito a superare le polemiche contingenti e a costruire una visione condivisa e di lungo respiro, capace di rinsaldare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni.

Nel suo intervento, la Prima presidente ha anche posto l’attenzione sulla qualità della produzione normativa italiana: una legislazione «intensa, superiore alla media europea», che spesso genera disorientamento, con messaggi contraddittori dettati dalle contingenze politiche. Un fenomeno legato sia alla frammentazione del corpo sociale, incapace di condividere valori comuni, sia all’uso simbolico della legge come risposta immediata a istanze sociali.

Critiche anche allo spostamento del potere normativo dal Parlamento al Governo, con la frequente adozione di provvedimenti d’urgenza che rendono difficile la coerenza e il coordinamento del sistema normativo. Una difficoltà che si riverbera sul lavoro quotidiano di magistrati e avvocati, costretti a interpretare norme spesso ambigue o contraddittorie.

La presidente ha poi sollevato un tema cruciale: la riduzione del diritto a tecnica applicativa, senza un adeguato approfondimento culturale e valoriale. In presenza di vuoti normativi, ha detto, la giurisdizione è chiamata a scegliere se arrendersi o procedere in una “ricostruzione del sistema” fondata sui principi costituzionali e sovranazionali. In questo quadro, la motivazione delle decisioni diventa elemento centrale: non solo obbligo formale, ma garanzia di razionalità, trasparenza e prevedibilità, condizioni essenziali per il diritto di difesa.

Cassano ha ricordato che il giudizio non è un esercizio meccanico, né può essere affidato a strumenti tecnologici: «Il diritto vive di sfumature, interpretazioni e confronto», e non può ridursi a una somma di precedenti applicati senza riflessione. L’intelligenza artificiale, per quanto evoluta, non potrà mai sostituire la sensibilità umana nel cogliere la complessità delle situazioni.

Da qui l’appello finale a magistrati e avvocati per un «patto per il futuro»: una rinnovata alleanza culturale e professionale per affrontare le sfide della società contemporanea, anche là dove la legge tace o non basta. Un nuovo umanesimo giuridico, ha concluso Cassano, che ponga al centro la persona, le sue emozioni e le sue ragioni. Perché l’errore giudiziario è la più grave ingiustizia, e il diritto deve servire a prevenirlo, mai a legittimarlo.


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L’intelligenza artificiale tra creatività e pericolo: quando la realtà diventa una trappola digitale

L’IA non è più un affare da esperti: è uno strumento creativo alla portata di tutti. Bastano un’app, una piattaforma gratuita, e in pochi clic si possono generare racconti, poesie, testi di canzoni. Anche testate come Il Foglio hanno sperimentato la redazione di interi giornali con articoli scritti da intelligenze artificiali. I risultati sono spesso sorprendenti: testi fluidi, coerenti, difficili da distinguere da quelli scritti da mano umana.

Ma se da un lato questi esperimenti mostrano le potenzialità dell’IA nella produzione culturale, dall’altro rivelano un lato oscuro. E pericoloso.

Il problema più grave sorge quando l’IA viene usata per generare notizie false e diffonderle. Piattaforme come Twitter, Instagram o Telegram – con i suoi canali criptati di “controinformazione” – diventano il terreno perfetto per la viralità di bufale ben costruite. L’IA può alimentare questi spazi con contenuti ingannevoli, confezionati su misura per sembrare autentici.

È il terreno dei deepfake: video, audio e immagini incredibilmente realistici, capaci di mostrare politici, CEO o celebrità mentre dicono o fanno cose mai avvenute. La tecnologia, già usata in produzioni cinematografiche come Rogue One o Obi-Wan Kenobi per ricreare volti o ringiovanire attori, diventa inquietante se utilizzata fuori da contesti artistici.

Cosa succederebbe se un video mostrasse un presidente annunciare una guerra? O se un audio artefatto rivelasse una frode finanziaria mai commessa? In un contesto globale fragile e iperconnesso, bastano poche ore perché il danno sia fatto. L’effetto può essere devastante: dalla reputazione personale alla stabilità politica ed economica.

I media tradizionali, già in crisi di credibilità, non riescono più a contenere l’ondata. Accusati da anni di servilismo ai “poteri forti” o di eccessivo sensazionalismo, hanno perso la fiducia di ampie fette di pubblico. Così, anche le rettifiche più puntuali vengono percepite come insabbiamenti. E una bufala ben fatta può diventare verità agli occhi di milioni.

E non è fantascienza. Finti articoli attribuiti a quotidiani come Repubblica o Corriere hanno già promosso metodi “miracolosi” per arricchirsi con le criptovalute, usando volti noti come testimonial inconsapevoli. Domani, potremmo vedere video costruiti ad arte per screditare leader politici, aziende, o influenzare le elezioni.

In politica, un deepfake ben diffuso può alterare il corso di uno Stato. In economia, può affondare un titolo in borsa o cancellare la reputazione di un brand in un click. Un esempio? Basta un video che simuli un difetto grave in un’auto elettrica, e il crollo delle azioni è immediato.

I software anti-deepfake esistono, ma sono rincorse affannate. Analizzano riflessi, movimenti facciali, incongruenze invisibili. Tuttavia, non bastano. Il vero problema è culturale. Il pubblico – abituato a video brevi e d’impatto su TikTok o YouTube – è vulnerabile a contenuti emozionali e virali. Il fact-checking è visto con sospetto, le regole come censura.

Serve una rivoluzione culturale, non solo tecnologica.
Non possiamo affidarci solo a norme o piattaforme. Dobbiamo allenarci al dubbio, imparare a verificare, resistere alla tentazione di condividere senza pensare. La scuola dovrebbe insegnare a distinguere fatti da narrazioni. La formazione continua dovrebbe incentivare l’approfondimento.

Perché la vera difesa non è un algoritmo. È il pensiero critico.
E nel mondo della velocità e dell’emozione, è l’unico scudo che può salvarci dall’inganno perfetto.


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Prove “irrituali” ma valide: la Cassazione separa il fisco dal penale

Anche se ottenuti con modalità non conformi alle prescrizioni del codice di procedura penale, gli elementi raccolti dalla Guardia di Finanza durante le verifiche fiscali possono essere utilizzati in sede tributaria. A dirlo è la Corte di Cassazione con la sentenza n. 8452 del 31 marzo 2025, che rafforza un principio ormai consolidato nella giurisprudenza: non esiste nell’ordinamento tributario un generale divieto di utilizzo delle prove acquisite in modo illegittimo, salvo il caso in cui vengano lesi diritti fondamentali di rango costituzionale.

Gli accertamenti tributari – condotti dalla Guardia di Finanza e dall’Agenzia delle Entrate – mirano a garantire il rispetto degli obblighi fiscali da parte dei contribuenti, attraverso accessi, ispezioni e verifiche. Al termine delle operazioni viene redatto un Processo Verbale di Constatazione (PVC), che riassume le attività svolte, le eventuali violazioni rilevate e le osservazioni del contribuente. Questo documento rappresenta il punto di partenza per l’eventuale azione impositiva da parte dell’Amministrazione finanziaria.

La Cassazione ha chiarito che, in assenza di una norma specifica che disponga l’inutilizzabilità, eventuali irregolarità nell’acquisizione degli elementi non bastano, da sole, a escludere il loro uso in sede tributaria. Diversamente accade nel processo penale, dove l’art. 191 c.p.p. stabilisce espressamente l’inutilizzabilità delle prove ottenute in violazione di legge.

La sentenza si inserisce in una linea interpretativa che fa leva sulla netta distinzione tra procedimento penale e procedimento tributario, come già affermato in precedenti decisioni (Cass. n. 20358/2020, n. 24923/2011, n. 8459/2020). Tale separazione è prevista anche dal D. Lgs. 74/2000 e dagli artt. 2 e 654 c.p.p., oltre che dall’art. 220 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, che impone il rispetto delle garanzie penali solo in caso di emersione di indizi di reato.

Particolare attenzione è riservata alla distinzione tra le attività amministrative della Guardia di Finanza – svolte in cooperazione con gli uffici finanziari – e quelle di polizia giudiziaria. Solo in quest’ultimo caso si applicano le tutele previste dal codice di procedura penale e dall’art. 24 della Costituzione in materia di diritto di difesa.

In sintesi, la Cassazione riafferma che nel procedimento tributario ciò che conta è il rispetto delle regole fiscali (come l’art. 33 del D.P.R. 600/1973 e gli artt. 52 e 63 del D.P.R. 633/1972), non quelle del codice penale. Una decisione che conferma l’autonomia e la specificità del diritto tributario nel nostro ordinamento.


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Cassazionisti, via all’esame 2025: pubblicato il bando del Ministero della Giustizia

Il Ministero della Giustizia ha ufficialmente indetto la sessione d’esame per l’iscrizione nell’albo speciale degli avvocati abilitati al patrocinio davanti alla Corte di Cassazione e alle altre giurisdizioni superiori per l’anno 2025. Il bando, datato 12 marzo e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale – 4ª Serie Speciale “Concorsi ed Esami” n. 25 del 28 marzo 2025, fissa al 6 giugno 2025 il termine per la presentazione delle domande.

Requisiti di accesso

Possono candidarsi all’esame gli avvocati attualmente iscritti all’albo che abbiano maturato almeno cinque anni di esercizio della professione davanti ai Tribunali e alle Corti d’Appello, e abbiano svolto un tirocinio formativo di pari durata presso uno studio legale dove si eserciti abitualmente il patrocinio in Cassazione.

Domanda di partecipazione

La domanda deve essere inviata al Ministero della Giustizia – Dipartimento per gli affari di giustizia, Direzione generale degli affari interni – esclusivamente per raccomandata A/R all’indirizzo di Via Arenula 70, Roma. Farà fede la data del timbro postale.
Oltre alla marca da bollo, è necessario allegare la documentazione che attesti l’iscrizione all’albo, l’anzianità e l’esperienza richiesta, nonché le ricevute di pagamento della tassa d’esame (€ 20,66) e del contributo forfettario (€ 75,00), da versare tramite la piattaforma PagoPA.

Prove di esame

Le prove scritte, della durata di sette ore ciascuna, consisteranno nella redazione di tre ricorsi per Cassazione nelle seguenti materie:

  • Diritto civile
  • Diritto penale
  • Diritto amministrativo (compreso il ricorso al Consiglio di Stato o alla Corte dei conti in sede giurisdizionale)

La prova orale consisterà nella discussione pubblica di un caso, assegnato dalla Commissione, durante la quale il candidato dovrà dimostrare competenza giuridica e attitudine al patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori. La durata dell’orale non sarà inferiore a trenta minuti.

Calendario delle prove

La data, l’orario e la sede delle prove scritte saranno rese note nella Gazzetta Ufficiale n. 54 dell’11 luglio 2025, con valore di notifica a tutti gli interessati.


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Difendere non è condividere: quando l’avvocato lascia il mandato (senza giudicare)

È bastata la notizia della rinuncia al mandato da parte dell’avvocato di un giovane arrestato per l’omicidio di una ragazza per scatenare un’ondata di commenti, interpretazioni e polemiche. Alcuni titoli di giornale hanno affiancato l’ammissione del ragazzo alla decisione dell’avvocato di lasciare l’incarico, suggerendo implicitamente che l’abbandono fosse una forma di condanna morale, un segnale di ripulsa verso il presunto autore di un crimine efferato. Ma la realtà è molto più semplice — e molto più seria.

Come spiegato da fonti vicine al caso, il legale in questione è un civilista, non un penalista. La sua decisione di non proseguire nella difesa deriva da una valutazione professionale: non è la sua materia, non ha la competenza specifica per affrontare una vicenda tanto delicata. È, anzi, un gesto di rispetto nei confronti del cliente e del processo stesso.

Occorre allora richiamare alcuni principi fondamentali del diritto penale e della deontologia forense. Primo: ogni imputato ha diritto a una difesa tecnica, obbligatoria nel processo penale. Non si tratta solo di un diritto individuale, ma di una garanzia per l’intera collettività, come ha affermato la Corte costituzionale. È ciò che spinse il presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino, Fulvio Croce, a difendere d’ufficio i brigatisti — pagandone il prezzo con la vita.

Ma il rapporto tra difensore e assistito è di natura fiduciaria. Un avvocato di fiducia può rinunciare all’incarico anche senza una giusta causa, mentre il difensore d’ufficio, nominato dallo Stato, può essere sostituito solo per motivi fondati. In ogni caso, la rinuncia non ha effetto immediato: il legale deve assicurarsi che il cliente non resti privo di tutela.

C’è poi un altro principio spesso trascurato: un avvocato ha il dovere deontologico di assumere solo incarichi per cui possiede la preparazione necessaria. Nessuno dovrebbe stupirsi, quindi, se un civilista si fa da parte in un processo penale.

Il vero punto è che la difesa di un imputato non è mai un atto di approvazione o giustificazione del reato. L’avvocato non è un complice né un moralista: è un professionista che opera con razionalità e competenza. Se non si sente in grado di farlo, o se teme che le proprie emozioni possano interferire, ha il dovere di farsi da parte. Non per giudicare il cliente, ma per garantirgli la miglior difesa possibile.

Un altro caso, di tono ben diverso, ha fatto notizia negli stessi giorni: un ministro della Repubblica ha cambiato difensore durante il processo. Il nuovo penalista, subentrato a ridosso dell’udienza, ha chiesto e ottenuto un rinvio per studiare gli atti. Nulla di straordinario: accade spesso nelle aule dei tribunali. E solo il giudice, in quel momento, può valutare se la richiesta sia fondata o strumentale.

In conclusione, il diritto di difesa è una colonna portante della giustizia. Confonderlo con l’adesione al comportamento dell’imputato è non solo un errore, ma un pericoloso fraintendimento del senso stesso del processo penale.


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