Smart working e sicurezza: cambia la prevenzione, nasce una responsabilità condivisa

Il lessico del lavoro è cambiato. Espressioni come smart working, lavoro agile e workation sono ormai parte della quotidianità professionale. Se da un lato queste modalità offrono libertà e flessibilità, dall’altro pongono interrogativi concreti su come garantire sicurezza e benessere psicofisico fuori dalle tradizionali mura aziendali.

A preoccupare di più è proprio l’impatto sulla salute mentale. La reperibilità continua, le comunicazioni digitali senza orari e l’isolamento sociale possono generare stress e disagio psicologico. Molte imprese hanno iniziato a correre ai ripari con corsi di gestione dello stress, iniziative di supporto psicologico e momenti di confronto collettivo.

Ma la vera sfida riguarda la prevenzione. Se il posto di lavoro non è più fisso ma si sposta tra casa, spazi di coworking e località di vacanza, come si gestiscono i rischi? Chi ha la responsabilità di assicurare condizioni adeguate? E quali strumenti servono per farlo?

Il fenomeno del workation, che combina lavoro e vacanza, rappresenta bene questa nuova realtà. Sempre più persone decidono di lavorare da luoghi di villeggiatura, mentre le aziende — attratte dall’idea di personale più motivato e produttivo — iniziano ad autorizzarlo. Tuttavia, le problematiche non mancano: connessioni internet instabili, spazi non pensati per il lavoro, scarsa ergonomia, confusione tra vita privata e attività professionale.

In questo scenario in continua evoluzione, le aziende devono aggiornare le loro strategie di prevenzione. Anche senza norme rigide e univoche, è indispensabile fornire linee guida su come allestire le postazioni, organizzare il tempo e tutelare la salute, sia fisica che mentale. Centrale diventa il dialogo costante tra impresa e lavoratore, sfruttando le potenzialità degli strumenti digitali.

La cultura della sicurezza, dunque, non può più essere un insieme di regole imposte dall’alto, ma deve trasformarsi in un patto condiviso. Servono policy chiare su rischi, responsabilità e strumenti a disposizione, oltre alla promozione di un clima aziendale basato su fiducia, collaborazione e corresponsabilità.

In un contesto professionale sempre più digitale e fluido, la sicurezza non è più solo questione di luoghi fisici, ma di persone. Ogni lavoratore, ovunque si trovi, deve sapere come tutelare sé stesso e a chi rivolgersi in caso di difficoltà. Solo così sarà possibile coniugare libertà lavorativa e protezione, benessere personale e produttività.


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Lavoro digitale, meno rischi e più sicurezza: la scommessa UE fino al 2034

La nuova strategia UE-OSHA per il periodo 2025-2034, appena elaborata dall’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, che scommette sull’intelligenza artificiale, sulla robotica e sulla digitalizzazione per trasformare il lavoro e tutelare meglio i lavoratori.

I sistemi basati sull’IA, in grado di svolgere compiti ripetitivi o rischiosi con crescente autonomia, potrebbero prendere il posto degli esseri umani negli ambienti e nelle mansioni più pericolose. Il risultato sarebbe duplice: da un lato, più produttività per le aziende; dall’altro, un significativo miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

La strategia punta a rispondere alle grandi transizioni sociali in corso: dalla digitalizzazione al passaggio green, fino all’invecchiamento della forza lavoro. Quest’ultimo, in particolare, rappresenta una sfida crescente, perché l’allungarsi della vita lavorativa comporta cambiamenti nelle capacità fisiche e sensoriali, rendendo necessari nuovi strumenti di valutazione e adattamento degli ambienti e delle mansioni.

La digitalizzazione del mondo del lavoro, secondo l’UE-OSHA, apre nuove opportunità ma anche nuove sfide. Tecnologie come intelligenza artificiale, big data, robotica, algoritmi e piattaforme digitali stanno già cambiando il modo di lavorare, e continueranno a farlo nei prossimi anni. È però necessario affrontare anche i rischi specifici di queste tecnologie: collisioni impreviste, eccessivo affidamento sui sistemi automatizzati, implicazioni psicosociali e organizzative.

Molte aspettative sono riposte nei sistemi incorporati — come la robotica — e in quelli non incorporati, come le applicazioni di intelligenza artificiale. Questi strumenti permetteranno di rimuovere i lavoratori da ambienti e mansioni ad alto rischio, lasciando loro compiti più sicuri e ad alto contenuto creativo.

Naturalmente, la transizione digitale porta con sé anche criticità: dai nuovi rischi per la sicurezza sul lavoro legati all’interazione uomo-macchina, fino alle problematiche psicologiche e organizzative derivanti da una gestione del lavoro sempre più mediata dalla tecnologia.

Per questo, la strategia UE-OSHA 2025/2034 non si limita a promuovere l’automazione, ma punta a costruire ambienti di lavoro più sicuri e inclusivi, dove l’uomo e la macchina possano coesistere in modo equilibrato e sostenibile. Un mondo del lavoro con meno rischi e più sicurezza: non un sogno, ma un obiettivo possibile.


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Cybersicurezza, scatta l’obbligo Nis 2: cosa devono fare aziende e PA entro il 2026

Con la determinazione n. 164179 del 14 aprile 2025, l’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (ACN) ha dato ufficialmente il via al cronoprogramma di attuazione degli obblighi previsti dal decreto legislativo 138/2024, che recepisce in Italia la direttiva europea Nis 2 sulla sicurezza delle reti e dei sistemi informativi. Il provvedimento coinvolge sia enti pubblici che soggetti privati operanti in settori considerati strategici — come energia, trasporti, sanità, finanza, alimentare e digitale — obbligandoli a rivedere processi, policy e misure di sicurezza informatica.

Chi è obbligato e cosa deve fare Il decreto distingue tra soggetti essenziali e soggetti importanti, classificazione che influisce su quantità e tipo di adempimenti e sull’entità delle sanzioni in caso di violazione. Gli enti coinvolti sono tenuti a registrarsi sulla piattaforma ACN, ricevere la notifica di inclusione nell’elenco ufficiale e rispettare una serie di obblighi tecnici e organizzativi, che spaziano dalla predisposizione di policy di sicurezza informatica all’adozione di sistemi di autenticazione multifattore, fino alla redazione di inventari di asset e piani di gestione del rischio.

Tempi stretti e sanzioni pesanti Le scadenze sono differenziate: entro 9 mesi dalla notifica dell’inserimento negli elenchi ACN, i soggetti dovranno adempiere agli obblighi di notifica degli incidenti informatici; entro 18 mesi, completare tutte le misure di sicurezza di base previste. Il rischio, per chi non si adegua, è quello di sanzioni amministrative fino a 10 milioni di euro o al 2% del fatturato per i soggetti essenziali e fino a 7 milioni o al 4% del fatturato per quelli importanti. Le pubbliche amministrazioni rischiano fino a 125.000 euro.

Formazione obbligatoria e controllo sui fornitori Particolare attenzione è riservata alla formazione: tutte le organizzazioni dovranno adottare e mantenere un piano formativo aggiornato in materia di cybersicurezza per tutto il personale, compresi vertici e dirigenti. Inoltre, i contratti di fornitura di prodotti e servizi dovranno contenere clausole specifiche sulla sicurezza informatica, e i fornitori dovranno garantire standard di protezione adeguati.

Un sistema articolato e complesso La mole documentale da gestire è significativa: policy, registri, elenchi di asset e personale, report di formazione e inventari di fornitori dovranno essere predisposti e aggiornati periodicamente, mentre le valutazioni del rischio dovranno essere effettuate almeno ogni due anni o in caso di variazioni rilevanti dell’organizzazione o del contesto di minaccia.

Il 2026 si preannuncia dunque come un anno cruciale per la cybersicurezza in Italia: aziende e pubbliche amministrazioni dovranno correre per mettersi in regola, sotto la spinta di una normativa europea sempre più stringente e di un quadro sanzionatorio severo.


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Dichiarazione dei Redditi 2025, si parte: al via la precompilata con tante novità

Conto alla rovescia per la dichiarazione dei redditi 2025. A partire dal pomeriggio di mercoledì 30 aprile, infatti, saranno disponibili sul sito dell’Agenzia delle Entrate i modelli precompilati, già predisposti con i dati in possesso del Fisco e quelli trasmessi da enti esterni come datori di lavoro, farmacie e banche. Un’operazione mastodontica che, per questa stagione dichiarativa, ha visto la raccolta di circa 1 miliardo e 300 milioni di informazioni.

Modelli consultabili dal 30 aprile, modificabili dal 15 maggio

I contribuenti potranno consultare i modelli dal 30 aprile e apportare eventuali modifiche a partire dal 15 maggio, data dalla quale sarà possibile inviare ufficialmente le dichiarazioni. Riconfermata anche per quest’anno la possibilità di scegliere il 730 semplificato, modalità adottata nel 2024 da oltre la metà dei contribuenti, che consente di compilare la dichiarazione in modo più intuitivo e guidato, senza dover conoscere tecnicismi e codici.

Ristrutturazioni e spese sanitarie dominano i dati trasmessi

Tra i dati già caricati nei modelli precompilati, le spese sanitarie restano al primo posto con oltre 1 miliardo di documenti trasmessi. A seguire i premi assicurativi (più di 98 milioni), le certificazioni uniche di dipendenti e autonomi (quasi 75 milioni) e i bonifici per ristrutturazioni edilizie (10,5 milioni). Proprio le ristrutturazioni condominiali segnano un vero boom, con quasi 7,5 milioni di dati trasmessi, in aumento del 32% rispetto all’anno precedente.

Incrementi significativi anche per le erogazioni liberali (+13%), le spese scolastiche e universitarie e i costi sostenuti per gli asili nido.

Le novità della dichiarazione 2025

Per semplificare ulteriormente l’adempimento fiscale, l’Agenzia delle Entrate ha introdotto alcune migliorie funzionali, come la possibilità di scegliere il sostituto d’imposta direttamente online e di passare dalla modalità semplificata a quella ordinaria con maggiore flessibilità. Debuttano inoltre i nuovi quadri M e T, destinati ai redditi soggetti a tassazione separata, imposta sostitutiva o derivanti da plusvalenze di natura finanziaria, gestibili anche attraverso la dichiarazione semplificata.

Per gli eredi, infine, il servizio web è stato esteso anche a tutori, amministratori di sostegno e genitori abilitati.

Dichiarazione fino al 30 settembre, redditi fino al 31 ottobre

I contribuenti avranno tempo fino al 30 settembre 2025 per inviare il modello 730 e fino al 31 ottobre per il modello Redditi. Le scadenze sono state fissate nel provvedimento firmato dal direttore dell’Agenzia delle Entrate, Vincenzo Carbone.

Da quest’anno, inoltre, tra i dati precompilati faranno il loro ingresso anche i proventi derivanti dalla cessione di energia elettrica prodotta da impianti fotovoltaici domestici, oltre a nuove funzionalità dedicate ai contribuenti in regime forfetario e di vantaggio.


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Pronta l’autoriforma forense: più libertà professionale e nuove regole su monocommittenza e segreto

Si è chiuso il percorso di elaborazione dell’autoriforma dell’ordinamento forense. Il tavolo di lavoro promosso dal Consiglio Nazionale Forense, al quale hanno partecipato tutte le componenti della professione — dagli Ordini territoriali alle unioni regionali, dalle associazioni di categoria ai comitati per le pari opportunità — ha definito un articolato disegno di legge composto da 91 articoli, destinato a ridisegnare diversi aspetti centrali dell’attività forense.

Il testo sarà presentato martedì prossimo all’Agorà degli Ordini e delle associazioni e, successivamente, trasmesso alle forze politiche per l’avvio dell’iter parlamentare. L’obiettivo è aggiornare le regole della professione nel rispetto dei principi costituzionali e dell’autonomia dell’Avvocatura.

Tra i punti qualificanti del disegno di legge spicca la revisione del regime delle incompatibilità. La nuova disciplina amplia le possibilità di esercizio della professione, consentendo agli avvocati di assumere incarichi di amministrazione in società di persone e capitali, purché limitati a specifiche attività di gestione patrimoniale o familiare e all’amministrazione di enti pubblici e privati.

Una sezione importante del testo è dedicata alle modalità di esercizio della professione, con una disciplina dettagliata della monocommittenza e della collaborazione continuativa. La norma esclude espressamente la configurazione di un rapporto di lavoro subordinato, definendo invece il rapporto come prestazione d’opera intellettuale. Previsti contratti scritti con indicazione di durata, compenso preferibilmente mensile, periodo di prova e diritto di recesso con preavviso.

Viene rafforzata la disciplina del segreto professionale, qualificato come norma di ordine pubblico e dunque non derogabile, neanche con il consenso del cliente. Una garanzia che mira a tutelare la libertà e la sicurezza della difesa.

Sul piano dei compensi, il disegno di legge introduce la possibilità di pattuire con il cliente onorari legati al raggiungimento degli obiettivi, purché proporzionati all’attività svolta e senza superare il 20% rispetto ai massimali previsti dai parametri vigenti.

La riforma interviene anche sulla formazione obbligatoria, rendendo il tirocinio forense esclusivamente praticabile presso studi legali e subordinandolo alla frequenza obbligatoria delle scuole forensi. Viene inoltre confermata l’eliminazione definitiva della possibilità di esercitare senza aver superato l’esame di abilitazione.

Infine, cambia la durata del mandato degli organi rappresentativi: il Consiglio dell’Ordine e il Consiglio Nazionale Forense resteranno in carica per tre anni, con il limite di tre mandati consecutivi, dopo i quali sarà necessario un intervallo triennale prima di una nuova candidatura.


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Sentenze in chiaro nella Banca Dati di Merito: il TAR stoppa l’anonimato generalizzato

Il TAR del Lazio interviene sulla trasparenza della giustizia e, con la sentenza n. 7625/2025, annulla il provvedimento del Ministero della Giustizia che prevedeva l’anonimizzazione generalizzata dei dati personali nelle decisioni pubblicate nella banca dati delle sentenze di merito (Banca Dati di Merito). Secondo i giudici amministrativi, la scelta di rimuovere sistematicamente nomi, date e riferimenti giurisprudenziali non solo è priva di una base normativa adeguata, ma svuota di significato la finalità stessa della banca dati, pensata per garantire l’accesso effettivo e completo alla giurisprudenza.

Il TAR chiarisce che i dati identificativi possono essere oscurati solo in circostanze specifiche, come nei procedimenti riguardanti rapporti familiari, minori, o su disposizione del giudice o su istanza delle parti. Il provvedimento del Ministero, invece, estendeva l’anonimato a ogni decisione pubblicata, compromettendo la comprensione dei provvedimenti e rendendo difficoltosa l’attività degli operatori del diritto.

La controversia trae origine dal dicembre 2023, quando il Ministero, nell’ambito del PNRR, ha sostituito l’Archivio giurisprudenziale nazionale con due nuove banche dati: una riservata ai magistrati, consultabile integralmente, e una pubblica, accessibile tramite SPID, CIE o CNS, ma fortemente anonimizzata. Proprio quest’ultima ha suscitato le maggiori perplessità tra avvocati e giuristi, costretti a lavorare su testi privi di elementi essenziali per l’analisi giuridica. A sostenere il ricorso, oltre ad alcuni professionisti del settore, è intervenuto anche l’Ordine degli avvocati di Milano.

Il TAR ha inoltre censurato la scelta di mantenere due sistemi paralleli, definendola irrazionale e in contrasto con il buon uso delle risorse pubbliche. L’amministrazione, osservano i giudici, è chiamata a garantire l’accessibilità delle pronunce giurisdizionali attraverso soluzioni tecniche rispettose della normativa, ma senza decidere autonomamente se e cosa anonimizzare.

Un passaggio particolarmente significativo della sentenza riguarda l’accordo tra il Ministero e l’AIE (Associazione Italiana Editori), grazie al quale alcuni soggetti privati sono autorizzati a pubblicare integralmente tutte le sentenze, salvo i casi di legge. Una disparità che, secondo il TAR, rende ancora più inspiegabile la scelta di limitare l’accesso completo alle decisioni nella banca dati pubblica.

Con l’annullamento del provvedimento ministeriale, il Ministero dovrà ora adeguarsi ai principi di trasparenza e pubblicità delle decisioni giurisdizionali, rispettando i limiti della normativa sulla protezione dei dati personali. Resta da vedere se il Dicastero sceglierà di impugnare la sentenza davanti al Consiglio di Stato.


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Fabbriche, magazzini e uffici semi vuoti: tra feste e ponti si lavora al rallentatore

Nel 2025 il nostro Pil è destinato a sfiorare i 2.244 miliardi di euro. Questo implica che produciamo poco più di 6 miliardi di euro di reddito al giorno. Includendo anche i bambini e gli anziani, l’importo pro capite giornaliero medio nazionale ammonta a 104 euro (vedi Tab. 1). A livello provinciale il contributo per abitante più elevato “giunge” da Milano con 184,9 euro. Seguono Bolzano con 154,1, Bologna con 127,6, Roma con 122 e Modena con 121,3.  In coda alla classifica nazionale, invece, troviamo la provincia di Sud Sardegna con 50,8 euro, Cosenza con 50,7 e, infine, Barletta-Andria-Trani con 50,6 (vedi Tab. 2). A dirlo è un’elaborazione realizzata dall’Ufficio studi della CGIA su dati Prometeia e Istat.

Rispetto al 2024 lavoriamo 2 giorni in meno: “costo” 12 miliardi. Pari ai danni provocati dai dazi di Trump

Quest’anno lavoreremo 251 giorni, due in meno rispetto al 2024 che, comunque, era un anno bisesto. In termini di Pil, questo ci “costerà”, in linea teorica, 12 miliardi di euro. Un impatto economico equivalente a quello che potremmo subire dall’eventuale introduzione dei dazi da parte dell’amministrazione Trump. Comunque sia, a livello europeo siamo annoverati tra i più stakanovisti: secondo l’OCSE[1], infatti, solo la Grecia (1.897), la Polonia (1.803), la Repubblica Ceca (1.766) e l’Estonia (1.742) registrano un numero di ore lavorate per occupato all’anno superiore al nostro che, segnaliamo, è pari a 1.734. In Francia sono 1.500 ore per occupato e in Germania 1.343. Un dato, quello italiano, che va interpretato con attenzione: ricordiamo, infatti, che contiamo uno stock di ore lavorate molto elevato ascrivibile, in particolare, a un tasso di occupazione tra i più bassi di tutta UE.

Con una settimana di lavoro in più, guadagneremmo un punto di Pil

Nei 20 giorni circa che quest’anno intercorrono tra l’inizio delle festività pasquali e la fine del ponte del 1° maggio, tante fabbriche, altrettanti magazzini, negozi e uffici si sono svuotati, continuando l’attività al rallentatore. Sicuramente negli alberghi, nei ristoranti e nelle realtà aziendali legate al settore turistico si lavora a pieno regime, ma nei comparti manifatturieri e nei servizi si denota una decisa flessione della produttività.  Segnaliamo, inoltre, che non sono pochi i dipendenti che hanno deciso di concentrare una parte delle ferie proprio in queste settimane, contribuendo a “sguarnire” gli organici nei comparti in cui operano, in particolare nell’industria. Intendiamoci, nessuno di noi vorrebbe accorpare o, peggio ancora, cancellare alcune feste comandate o impedire agli operai e agli impiegati di prendersi qualche giorno di vacanza durante i ponti, ci mancherebbe. Tuttavia, il problema sussiste ed ha delle implicazioni sulla produzione della ricchezza del nostro Paese non trascurabile. Un problema che il legislatore ha cominciato ad affrontare addirittura nel 1977, quando l’allora governo Andreotti III decise di cancellare alcune feste religiose, come l’Epifania[2], San Giuseppe, l’Ascensione, il Corpus Domini, San Giovanni e Paolo, San Francesco, etc. Più recentemente, l’esecutivo di Silvio Berlusconi nel 2004, poi in quello del 2011 e successivamente anche quello guidato dal prof. Mario Monti cercarono di mettere mano alla situazione senza riuscirci.   La CGIA stima che se tra feste e giorni pre-festivi fossimo in grado di recuperare una settimana di lavoro all’anno, guadagneremmo un punto di Pil che, in termini assoluti, ammonterebbe a circa 22 miliardi di euro.

Milano, Bolzano e Bologna le aree più ricche

Come dicevamo più sopra, le previsioni 2025 ci dicono che l’area provinciale con il valore aggiunto[3] per abitante al giorno più elevato è Milano. Nella Città Metropolitana meneghina l’importo corrisponde a 184,9 euro. Seguono Bolzano con 154,1, Bologna con 127,6, Roma con 122 e Modena con 121,3, Aosta con 120,4, Firenze con 119,8, Trento con 119,5, Parma con 115,4 e Reggio Emilia con 113,7.  Nella parte bassa della classifica, invece, scorgiamo Enna con un valore aggiunto pro capite di 53,5 euro per abitante, Agrigento con 52,8, Vibo Valentia con 51,5, Sud Sardegna con 50,8, Cosenza con 50,7 e, infine, Barletta-Andria-Trani con 50,6 (vedi Tab. 2).  A livello regionale, infine, la realtà più ricca è il Trentino Alto Adige con un Pil per abitante giornaliero di 152,8 euro. Seguono i residenti della Lombardia con 140,8, quelli della Valle d’Aosta con 134,5, quelli dell’Emilia Romagna con 123,8 e del Lazio con 121,3 (vedi Tab. 3).

Tredici province su 20 sono collocate a Nordest

Al netto della Città Metropolitana di Milano che, ricorda la CGIA, conta oltre 3,2 milioni di abitanti ed è considerata la più importante area industriale e finanziaria del Paese, nelle prime 20 posizioni della classifica nazionale solo quattro province sono ubicate a Nordovest (Aosta, Genova, Brescia e Bergamo), mentre ben 13 sono collocate a Nordest (Bolzano, Bologna, Modena, Trento, Parma, Reggio Emilia, Vicenza, Trieste, Padova, Verona, Treviso, Belluno e Piacenza). Anche questa graduatoria dimostra come le realtà geografiche dove la presenza delle Pmi è più diffusa, sono anche le aree più virtuose dal punto di vista economico.

Non abbiamo più le grandi imprese

L’Italia è un Paese che rispetto ad un tempo non dispone più di grandissime imprese e fatica ad attrarre nel proprio territorio le multinazionali straniere. Con un deficit infrastrutturale molto diffuso soprattutto nel Mezzogiorno, una giustizia civile lenta e impacciata, una Pubblica Amministrazione che registra tempi di pagamento tra i più lunghi di tutta UE e con un carico fiscale e burocratico da record, fare impresa in Italia è molto difficile, quasi proibitivo. Non per le nostre Pmi: nonostante tutti questi ostacoli continuano a ottenere risultati economici e occupazionali straordinari. Certo, i limiti di questo sistema produttivo sono noti a tutti. Sono realtà spesso composte da micro e Pmi ad alta intensità di lavoro che, mediamente, registrano livelli di produttività non elevatissimi, erogano retribuzioni più contenute delle aziende di dimensioni superiori – condizionando così l’entità dei consumi – e presentano livelli di investimenti in ricerca /sviluppo inferiori a quelli in capo alle grandi realtà produttive.

Fino ai primi anni ’80, però, eravamo leader. Ora lo siamo grazie alle Pmi

Al netto dell’inflazione, in questi ultimi 35 anni le retribuzioni medie degli italiani sono rimaste al palo, mentre in quasi tutta UE sono aumentate. Tra le cause del risultato italiano sono da annoverare la crescita economica asfittica e un basso livello di produttività del lavoro che dal 1990 hanno interessato il nostro Paese, soprattutto nel settore dei servizi. Una delle ragioni di questo risultato va ricercata anche nel fatto che, a differenza dei nostri principali concorrenti europei, in questo ultimo trentennio la competitività del nostro Paese ha risentito dell’assenza delle grandi imprese. Queste ultime sono pressoché scomparse, non certo per l’eccessiva numerosità delle piccole realtà produttive, ma a causa dell’incapacità dei grandi player, spesso di natura pubblica, di reggere la sfida innescata in questi ultimi 35 anni dal cambiamento provocato dalla caduta del muro di Berlino e da “Tangentopoli”.  La CGIA sottolinea che sino agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso, l’Italia era tra i leader europei – e in molti casi anche mondiali – nei settori della chimica, della plastica, della gomma, della siderurgia, dell’alluminio, dell’informatica, dell’auto e della farmaceutica[4]. Grazie al ruolo e al peso di molti enti pubblici economici (IRI, ENI ed EFIM) e di grandi imprese sia pubbliche che private

(Alfa Romeo, Angelini, Enimont, Fiat, Italsider, Montecatini, Montedison, Montefibre, Olivetti, Pirelli, Polymer, Sava/Alumix, etc.),

queste realtà garantivano occupazione, ricerca, sviluppo, innovazione e investimenti produttivi. A distanza di 45 anni, purtroppo, abbiamo perso terreno e leadership in quasi tutti i settori in cui eccellevamo. E ciò è avvenuto non a causa di un destino cinico e baro, ma da alcuni avvenimenti che hanno cambiato il corso della storia: la caduta del muro di Berlino, ad esempio, ha riunificato l’Europa, ha riattivato i rapporti commerciali con i Paesi presenti oltre la “cortina di ferro”. Successivamente, l’avvento della globalizzazione ha spinto fuori mercato molte delle nostre grandi aziende impiegate nei settori dove eravamo leader. Per il nostro Paese sono stati altrettanto dirompenti gli effetti di  “Tangentopoli” che tra il 1992 e il 1993 hanno messo a nudo i limiti, in particolare, di molte imprese a partecipazione statale che fino allora erano rimaste attive grazie al mercato protetto in cui operavano e ai sostegni politici che avevano ricevuto dalla quasi totalità dei partiti presenti nella cosiddetta “prima Repubblica”.  Nonostante ciò, in questi ultimi decenni l’Italia è rimasta tra i paesi economicamente più avanzati del mondo e questo lo deve quasi esclusivamente alle sue Pmi che, tra le altre cose, grazie alle produzioni “made in Italy” continuano a “dominare” buona parte dei mercati internazionali.

[1] L’ultimo dato disponibile è riferito al 2023

[2] Giornata che è tornata a essere una festività nel 1985

[3] Corrisponde al Pil al netto delle imposte indirette. E’ l’unica variabile disponibile su base provinciale

[4] Oggi, in parte, in questo settore manteniamo ancora una leadership importante


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25 aprile, Festa della Liberazione. UNCC: “L’Avvocatura presidio di libertà e diritti”

In occasione del 25 aprile, Festa della Liberazione, l’Unione Nazionale delle Camere Civili desidera ribadire il valore fondante di questa data per il nostro Paese, scolpita nella memoria collettiva come momento di rinascita e di riconquista della dignità civile, dei diritti fondamentali e della libertà.
Di seguito il messaggio del presidente UNCC Alberto Del Noce:
Il 25 aprile rappresenta per il nostro Paese una data fondante, scolpita nella memoria collettiva come momento di rinascita e di riconquista della dignità civile, dei diritti fondamentali, della libertà.
Come Avvocatura, siamo quotidianamente chiamati a dare significato concreto a quei principi di legalità, giustizia e tutela delle libertà individuali che proprio la Liberazione ha reso nuovamente possibili e che la nostra Costituzione, figlia di quella stagione storica, ha consacrato.
Lontani da ogni retorica e fuori da ogni divisione ideologica, in questa giornata desideriamo soffermarci sul valore profondo dell’impegno civile e professionale che la nostra funzione comporta: essere garanti del diritto, custodi delle tutele, voce di chi chiede giustizia.
Il 25 aprile ci ricorda che la libertà non è mai un punto d’arrivo, ma un cammino da percorrere con responsabilità e consapevolezza. E che il ruolo dell’Avvocatura è, oggi come allora, quello di presidiare i diritti, difendere la persona, sostenere la democrazia attraverso l’esercizio indipendente della funzione forense.
Con questo spirito, l’Unione Nazionale delle Camere Civili celebra questa giornata, rendendo omaggio a tutti coloro che hanno reso possibile il ritorno alla libertà, e rinnovando il proprio impegno nella difesa quotidiana dei valori costituzionali e del diritto di tutti a essere ascoltati, rappresentati, tutelati.

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Diffamazione: La Cassazione fa chiarezza sugli elementi essenziali del reato

Roma, 26 giugno 2024 – La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 25026 del 25 giugno 2024, ha fatto chiarezza sugli elementi essenziali…

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Il presidente dell'Unione delle Camere Civili Alberto Del Noce avverte: "Con il ddl di riforma della magistratura onoraria all'esame del Senato si crea una giustizia…

Niente assegno di mantenimento se manca la comunione di vita

La Corte di Cassazione torna a fare chiarezza sul delicato tema del diritto al mantenimento tra coniugi in caso di separazione. Con la sentenza n. 9207 dell’8 aprile 2025, i giudici di legittimità hanno confermato che se tra i coniugi non si è mai instaurata una comunione di vita reale, il diritto all’assegno di mantenimento non può sorgere per la prima volta in occasione della separazione.

Il caso: matrimonio di pochi mesi e nessuna vera vita insieme

Nel caso esaminato, il Tribunale e poi la Corte d’Appello avevano respinto la richiesta di assegno da parte di un marito separato, rilevando che i coniugi avevano convissuto solo per pochi mesi senza mai costruire una comunione affettiva e materiale. Il ricorrente aveva tentato di ribaltare la decisione in Cassazione, sostenendo che il diritto al mantenimento dipendesse esclusivamente dalla mancanza di addebito della separazione e dal divario reddituale tra i coniugi.

La decisione della Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, affermando che il diritto all’assegno di mantenimento presuppone la concreta attuazione del vincolo coniugale attraverso la condivisione della vita familiare e degli obblighi reciproci previsti dall’art. 143 del codice civile. In assenza di questa comunione di vita, il solo matrimonio formale non basta a far sorgere l’obbligo di assistenza materiale.

Inoltre, la Corte ha escluso anche il diritto all’assegno alimentare, rilevando che il marito non aveva dimostrato l’impossibilità di provvedere autonomamente al proprio sostentamento.

Principi ribaditi dalla sentenza

  • La breve durata del matrimonio non preclude di per sé il diritto al mantenimento, ma in mancanza di comunione spirituale e materiale il diritto non sussiste.
  • Il solo vincolo legale del matrimonio, privo di affectio coniugalis concretamente vissuta, non fonda alcun obbligo di assistenza economica in sede di separazione.
  • Per il riconoscimento degli alimenti occorre dimostrare non solo lo stato di bisogno, ma anche l’impossibilità oggettiva di mantenersi.

Un orientamento consolidato

Questa decisione si inserisce nel solco di una giurisprudenza costante che distingue tra vincolo formale e contenuto sostanziale del matrimonio, valorizzando la reale condivisione di vita come requisito imprescindibile per far sorgere diritti economici post-separazione.


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Falsa mail dal Servizio Sanitario Nazionale promette rimborsi: è una truffa

Una nuova insidiosa truffa online sta colpendo i cittadini italiani: si tratta di una falsa mail che promette un rimborso economico da parte del Servizio Sanitario Nazionale. Il Ministero della Salute ha diramato un’allerta ufficiale, invitando tutti a prestare la massima attenzione.

Il meccanismo della truffa

Il messaggio arriva via mail con oggetto accattivante, come “Ti spetta un rimborso di 234 euro dal SSN”. Al suo interno, una comunicazione apparentemente ufficiale, completa di logo istituzionale, linguaggio tecnico e una cifra precisa da ricevere. Il testo informa di una presunta verifica contabile che avrebbe rilevato un pagamento in eccesso e invita l’utente a cliccare su un link per ottenere il rimborso.

In realtà, si tratta di un sofisticato tentativo di phishing: cliccando sul collegamento si finisce su una pagina fraudolenta, progettata per sottrarre dati personali e bancari.

L’allerta del Ministero della Salute

In una nota ufficiale, il Ministero avverte: “Stanno circolando false mail a nome del Ministero della Salute che promettono rimborsi economici. Non si tratta di comunicazioni ufficiali”. Le autorità consigliano di non interagire con il contenuto della mail, non cliccare sui link e cancellare immediatamente il messaggio.

Le tecniche di persuasione dei truffatori

Gli esperti di cybersecurity spiegano che il testo della falsa mail è costruito ad arte per sembrare credibile. Utilizza un linguaggio rassicurante e fa leva sulla riservatezza e sulla protezione dei dati personali, concludendo con la frase: “Tutte le informazioni fornite verranno trattate con la massima riservatezza e nel rispetto delle normative vigenti”.

Questa tecnica di social engineering punta a generare urgenza e fiducia nella vittima, inducendola a fornire dati riservati senza sospetti. La truffa si sta diffondendo rapidamente anche sui social network, dove circolano screenshot della finta comunicazione.

Come proteggersi

Il Ministero ha già coinvolto i Carabinieri del NAS per indagare sull’origine e la diffusione della frode. Il consiglio per i cittadini è chiaro:

  • Non rispondere alla mail
  • Non cliccare su link o allegati
  • Non fornire dati personali o bancari
  • Segnalare l’episodio alla Polizia Postale
  • Cancellare immediatamente il messaggio

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