Riforma della magistratura onoraria: novità su compensi e tutele

La riforma della magistratura onoraria avanza in Parlamento, con l’approvazione al Senato del disegno di legge già licenziato dalla Camera lo scorso dicembre. La norma, attesa da anni, introduce un inquadramento economico e previdenziale più stabile per i magistrati onorari del contingente a esaurimento, ossia coloro che operano secondo le regole del decreto legislativo n. 116 del 2017.

Il provvedimento prevede stipendi aggiornati, tutele previdenziali, trattamento di fine rapporto (TFR) e ferie retribuite. Tuttavia, resta irrisolta la questione previdenziale per i magistrati onorari non esclusivisti, che continuano a esercitare altre professioni, come l’avvocatura. Per loro, la frammentazione dei contributi tra diverse casse previdenziali rende complessa e costosa la gestione delle pensioni.

Un nodo cruciale è la competenza dei giudici onorari di tribunale (Got), che continueranno a occuparsi di cause civili minori, come i risarcimenti per incidenti stradali fino a 100 mila euro. Tuttavia, potranno essere assegnati loro anche procedimenti più rilevanti, in assenza di giudici togati disponibili.

La riforma introduce anche cambiamenti nell’applicazione dei magistrati onorari ai collegi giudicanti: sarà possibile solo per necessità temporanee o emergenziali. Dal 31 ottobre 2025, entrerà in vigore un nuovo assetto organizzativo per gli uffici del giudice di pace, come previsto dalla riforma Orlando.

L’iter legislativo non è ancora concluso, ma il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro delle Vedove (FdI), ha confermato l’impegno del governo a portare a termine questa riforma tanto attesa, riconosciuta come necessaria da tutte le forze politiche.


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Fuga dal pubblico impiego: dimissioni record e concorrenza tra enti

Il pubblico impiego non è più sinonimo di stabilità e sicurezza. Nel 2023, secondo i dati dell’Inps, le dimissioni dalle amministrazioni pubbliche hanno raggiunto quota 92.878, segnando un incremento del 33% rispetto al 2019. Il fenomeno è particolarmente evidente nelle regioni del Nord-Ovest, dove le uscite sono passate da 22.306 a 35.008, mentre nel Nord-Est sono aumentate da 14.622 a 19.491.

Crisi nella sanità e negli enti locali

La situazione è particolarmente critica nel settore sanitario. Negli ultimi tre anni, circa 12 mila medici hanno abbandonato il Servizio sanitario nazionale, con un picco di dimissioni a Milano, dove solo nel 2024 circa 6 mila dipendenti pubblici hanno lasciato il proprio incarico. Nei Pronto soccorso e negli ospedali universitari, gli specializzandi si trovano spesso a dover coprire turni estenuanti, talvolta doppi rispetto alle ore previste, svolgendo mansioni che spetterebbero al personale strutturato.

Questa pressione lavorativa spinge molti professionisti verso il settore privato, creando un circolo vizioso che, come sottolinea il segretario della Uil, Santo Biondo, “aumenta il carico di lavoro per chi rimane”. La fuga dal pubblico non riguarda solo la sanità: gli enti locali come Comuni e Regioni sono sempre meno competitivi rispetto agli enti centrali come Inps e Inail, che offrono migliori possibilità di carriera e stipendi più alti.

Contratti bloccati e stipendi inadeguati

Una delle cause principali è il mancato rinnovo dei contratti. Il governo ha proposto un aumento del 5,78% per il triennio 2022-2024, mentre l’inflazione ha raggiunto quasi il 17%. La Funzione Pubblica Cgil e la Uil Fpl hanno rifiutato l’offerta, chiedendo maggiori risorse, e le trattative per i comparti sanità e funzioni locali sono ferme.

L’unico contratto rinnovato è quello delle funzioni centrali, grazie all’accordo con la Cisl e altri sindacati, ma la situazione generale rimane critica. Secondo la Funzione Pubblica Cgil, il blocco delle assunzioni e della contrattazione ha reso il lavoro pubblico sempre meno attrattivo, aumentando il carico di lavoro in uffici già sottodimensionati.

Il paradosso della concorrenza tra enti pubblici

Un fenomeno tutto italiano è la concorrenza tra enti pubblici per accaparrarsi i migliori dipendenti. Molti lavoratori, infatti, lasciano un’amministrazione per un’altra che offre migliori condizioni di lavoro e stipendi più alti. Questo porta a un continuo ricambio di personale, che svuota gli organici senza risolvere il problema strutturale della carenza di risorse umane.

Un futuro incerto per il pubblico impiego

Il “posto fisso” non è più considerato sacro, come raccontava Lino Banfi nel film Quo vado?. Al contrario, sempre più persone scelgono di abbandonarlo per trovare condizioni lavorative migliori nel settore privato o in altri enti pubblici più competitivi. Senza un intervento strutturale su stipendi, carichi di lavoro e condizioni contrattuali, il pubblico impiego rischia di diventare sempre meno attrattivo, aggravando ulteriormente la crisi del settore.


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ANM: per avere un giudice terzo non occorre andare a Berlino

ROMA, 21 febbraio – “Per dimostrare l’inutilità della separazione delle carriere, basta osservare la vicenda processuale che si è conclusa con la condanna in primo grado del sottosegretario Delmastro. Alla richiesta di archiviazione del pm un giudice ha ordinato l’imputazione, ed alla richiesta di assoluzione di un pm il Tribunale ha pronunciato condanna. Questo dimostra, come l’Anm sostiene da sempre, che il pm può chiedere l’assoluzione, nonostante la sua carriera non sia separata da quella del giudice, e che il giudice non è succube del pm”. Ad affermarlo è la Giunta esecutiva centrale dell’Associazione nazionale magistrati.

“Siamo, invece, sconcertati – prosegue la Giunta – nel constatare che ancora una volta il potere esecutivo attacca un giudice per delegittimare una sentenza. Siamo disorientati nel constatare che il ministro della Giustizia auspica la riforma di una sentenza di cui non esiste altro che il dispositivo. Sono dichiarazioni gravi, non consone alle funzioni esercitate, in aperta violazione del principio di separazione dei poteri, che minano la fiducia nelle istituzioni democratiche”.

“Siamo, tuttavia, confortati dalla consapevolezza che i magistrati del Tribunale di Roma hanno semplicemente applicato la legge con onore e responsabilità, come fanno ogni giorno i magistrati italiani”, conclude la nota Anm.

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Delmastro condannato per rivelazione di segreto d’ufficio: “Non mi dimetto”

I giudici dell’ottava sezione del tribunale di Roma hanno condannato a otto mesi di reclusione Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia di Fratelli d’Italia, per rivelazione di segreto d’ufficio in relazione al caso dell’anarchico Alfredo Cospito. La sentenza arriva nonostante la richiesta di assoluzione avanzata dalla procura, che aveva escluso l’intenzionalità della violazione. La condanna ha subito scatenato un acceso dibattito politico: la maggioranza fa quadrato attorno a Delmastro, mentre le opposizioni chiedono le sue dimissioni.

La vicenda giudiziaria

Andrea Delmastro è stato accusato di aver rivelato informazioni riservate sui colloqui in carcere di Alfredo Cospito, detenuto al 41 bis. Il caso era esploso il 31 gennaio 2023, quando Giovanni Donzelli, deputato di Fratelli d’Italia, aveva rivelato alla Camera dettagli sui contatti tra Cospito e alcuni boss mafiosi. Donzelli aveva poi ammesso di aver ricevuto quelle informazioni direttamente da Delmastro, il quale si era difeso sostenendo che i documenti non fossero classificati.

Nonostante la procura di Roma avesse inizialmente chiesto l’archiviazione, ritenendo che Delmastro non fosse consapevole dell’esistenza del segreto, la gip Emanuela Attura aveva disposto l’imputazione coatta. I giudici hanno ora stabilito la condanna a otto mesi di reclusione per il sottosegretario, che era presente in aula assistito dall’avvocato Giuseppe Valentino.

Le reazioni politiche

Delmastro ha subito dichiarato che non si dimetterà: “Spero ci sia un giudice a Berlino, non mi dimetto”. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha espresso “disorientamento e dolore” per la condanna, confermando “totale fiducia” nel sottosegretario e ribadendo l’impegno per le riforme della giustizia.

Dura la reazione delle opposizioni. La segretaria del Pd, Elly Schlein, ha chiesto alla premier Giorgia Meloni di far dimettere Delmastro, definendo “inadeguata” l’attuale classe dirigente. Giuseppe Conte, leader del M5S, ha attaccato direttamente Meloni, definendola “la principale responsabile di questo grave andazzo”. Anche Matteo Renzi (Iv) ha criticato Delmastro, pur sottolineando che il problema risiede “in quello che dice, non nelle condanne che prende”.

Lo scontro in Parlamento

Il caso Delmastro ha riportato l’attenzione sull’intervento di Donzelli alla Camera, da cui è partita l’inchiesta. Il deputato di Fratelli d’Italia aveva reso pubbliche informazioni sui colloqui di Cospito con esponenti mafiosi durante l’ora d’aria nel carcere di Bancali a Sassari. In quei dialoghi, boss come Francesco Presta e Francesco Di Maio avevano incoraggiato Cospito a proseguire lo sciopero della fame contro il 41 bis.

Secondo l’accusa, la divulgazione di quei dati, contenuti in una relazione del gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria, avrebbe violato il segreto d’ufficio. Delmastro ha sostenuto che, in qualità di sottosegretario con delega al Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), avesse legittimamente accesso a quei documenti.

Conseguenze e scenari futuri

La condanna di Delmastro apre ora scenari complessi per il governo Meloni, che si trova sotto pressione per le richieste di dimissioni del sottosegretario. La premier dovrà decidere se mantenere la linea difensiva della maggioranza o se cedere alle richieste dell’opposizione. In ogni caso, il caso Delmastro rischia di influenzare l’agenda politica nei prossimi mesi, con inevitabili ripercussioni sulle riforme della giustizia annunciate dal ministro Nordio.


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Mediazione civile in crescita nel 2023: sempre più accordi, soprattutto nelle controversie di basso valore

Il ricorso alla mediazione civile continua a crescere in Italia. Secondo la Relazione annuale del Ministero della Giustizia 2025, presentata dal Ministro Nordio all’inaugurazione dell’anno giudiziario, nel 2023 sono state iscritte circa 178.182 mediazioni, segnando un incremento del 15% rispetto al 2022. Le definizioni dei procedimenti sono aumentate dell’11%. Rispetto al 2019, ultimo anno pre-pandemia, le iscrizioni sono cresciute del 21%, ma le definizioni solo del 7,5%, segno di un recupero dell’attività ancora lento.

La mediazione obbligatoria domina, ma cresce l’uso di quella volontaria

La maggior parte delle mediazioni iscritte nel 2023 (74%) è stata avviata come “obbligatoria”, ossia necessaria per legge come condizione di procedibilità. Le mediazioni “volontarie” rappresentano il 13% del totale, mentre quelle demandate dal giudice sono circa il 14%. In particolare, dall’entrata in vigore della Riforma Cartabia (30 giugno 2023), le mediazioni demandate dai giudici sono state circa 11.170, con il 56% dei casi riguardanti contratti bancari e locazioni.

La presenza degli avvocati resta molto elevata anche nelle mediazioni volontarie, dove non c’è obbligo di assistenza legale: l’89% dei proponenti e il 76% degli aderenti hanno comunque scelto di farsi assistere da un legale.

Accordi più frequenti nelle liti di basso valore

La probabilità di raggiungere un accordo è risultata più alta nei procedimenti con un valore della lite compreso tra i 1.000 e i 5.000 euro. In questi casi, il tasso di accordo è del 34%, che sale al 57% quando le parti accettano di proseguire la mediazione dopo il primo incontro informativo.

Tra le materie più trattate in mediazione figurano quelle non espressamente previste dall’articolo 5 co.1-bis del Dlgs 28/2010 e le questioni volontarie (18,30% delle iscrizioni), seguite da Diritti reali (15,4%), Condominio (13,8%), Contratti bancari (12,54%) e Locazione (10,14%).

Si riducono gli Organismi di mediazione

Nonostante la crescita del ricorso alla mediazione, si registra un calo nel numero di Organismi attivi: da 580 nel 2020 a 550 nel 2023. Le regioni del Nord-Ovest e del Centro-Sud sono quelle in cui l’istituto della mediazione è maggiormente utilizzato.

Mediazione telematica ancora limitata

Nel secondo semestre del 2023, la mediazione telematica ha riguardato il 34% dei procedimenti definiti, confermando che la modalità in presenza rimane la più utilizzata.


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Ingiuste detenzioni: risarcimenti milionari ma poche sanzioni per i magistrati

Nel 2024 lo Stato italiano ha pagato 26,9 milioni di euro in risarcimenti per ingiusta detenzione. Dal 2018 al 2024, la cifra complessiva ha superato i 220 milioni di euro, con 4920 persone finite in carcere per errore. Tuttavia, nello stesso periodo, solo nove magistrati sono stati sanzionati per gli errori commessi.

È quanto emerge dalla Relazione al Parlamento del ministero della Giustizia su “Misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione” per l’anno 2024. I distretti di Corte di Appello con il maggior numero di richieste di risarcimento sono quelli di Napoli, Reggio Calabria, Catanzaro e Roma. Mancano però i dati sulle riparazioni per errori giudiziari, cioè per chi è stato riconosciuto innocente dopo un processo di revisione successivo a una condanna definitiva.

Una giustizia che pesa sulle tasche dei cittadini

Quasi il 75% delle richieste di risarcimento viene accolto per “accertata estraneità ai fatti contestati”. Solo il 25% riguarda l’illegittimità della misura cautelare. Nel 2024, su 1293 domande presentate, il 46,6% è stato accolto, il 49,4% respinto e il 4% dichiarato inammissibile.

Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, giornalisti e fondatori di Errorigiudiziari.com, spiegano: “Anche se i casi di ingiusta detenzione sono in diminuzione (619 nel 2023, 552 nel 2024), non bisogna lasciarsi ingannare. Le istanze respinte sono in aumento e dal 1991 a oggi lo Stato ha speso oltre 900 milioni di euro”.

I due avvertono inoltre che lo Stato potrebbe cercare di limitare le istanze di accoglimento per mancanza di fondi e sostengono la proposta del deputato Enrico Costa di rendere accessibili tutte le ordinanze, sia accolte che rigettate, per analizzare le motivazioni dei giudici.

Responsabilità (quasi) inesistenti per i magistrati

Dal 2017 al 2024 sono state avviate 89 azioni disciplinari contro magistrati per ingiuste detenzioni, ma solo in 9 casi ci sono state sanzioni (0,15% degli errori). La maggior parte dei procedimenti si è conclusa con assoluzioni o archiviazioni. Le condanne includono 8 censure e 1 trasferimento.

Secondo Enrico Costa (Forza Italia), “il magistrato che sbaglia non paga mai, neanche quando toglie la libertà a persone innocenti. Paga solo lo Stato”. Costa denuncia anche il calo delle azioni disciplinari promosse dal ministro della Giustizia: da 11 nel 2017 a zero nel 2024.

Il parlamentare accusa i magistrati fuori ruolo presso il ministero di non voler avviare azioni disciplinari contro i colleghi e critica il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) per aver emesso solo nove sanzioni su 89 procedimenti. “La politica è complice di questo status quo conservativo – conclude Costa – accettando che gli errori giudiziari restino impuniti”.


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Guerra cibernetica: nuova ondata di attacchi hacker all’Italia

Quarto giorno consecutivo ieri di attacchi DDoS contro l’Italia. Hacker filorussi del gruppo NoName057 hanno preso di mira diversi settori strategici, tra cui giustizia, finanza e trasporti, in un’azione dimostrativa e propagandistica che, al momento, non ha causato disservizi significativi. Il gruppo aveva già colpito nei giorni scorsi circa 20 siti web italiani legati alla finanza e alla produzione di armi.

L’intervento dell’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale

L’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (Acn) è intervenuta prontamente, intercettando il traffico anomalo e verificando l’effettiva natura dell’attacco. Una volta valutato il possibile impatto, l’Agenzia ha informato i bersagli e fornito supporto e consigli per mitigare i rischi.

Frattasi: “Attacchi a scopo ideologico”

Secondo Bruno Frattasi, direttore generale dell’Acn, gli attacchi hacker sono motivati da ragioni ideologiche. “Non posso dire se ci sia un mandante politico, perché nessuno lascia impronte digitali riconoscibili. Tuttavia, l’ispirazione ideologica è evidente: le stesse gang criminali la dichiarano apertamente”, ha spiegato Frattasi in un’intervista a La Stampa.

Gli attacchi sembrano coincidere con importanti interventi istituzionali, come nel caso delle recenti dichiarazioni del Presidente Sergio Mattarella. Oltre a provocare disagi, gli attacchi mirano a inquinare il discorso pubblico e a mostrare la presunta vulnerabilità di un Paese occidentale fedele alla linea europea.

La minaccia di NoName057 e la risposta italiana

NoName057 non è un gruppo improvvisato. Frattasi ha rivelato che l’Italia lo conosce bene da almeno due anni. “Nel 2023, poco dopo il mio arrivo all’Agenzia, mi hanno accolto pubblicando una mia foto con uno scolapasta in testa, insinuando che la sicurezza informatica dell’Italia fosse un colabrodo. Oggi, grazie al lavoro dell’Acn, l’impatto dei loro attacchi DDoS è calato dal 19 al 15%, nonostante gli episodi siano aumentati da 319 a 519”.

Pur riconoscendo che NoName057 non è una minaccia da sottovalutare, Frattasi ha chiarito: “Non si tratta di un gruppo che agisce da uno scantinato, ma nemmeno di una minaccia così pericolosa”.


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Posta elettronica aziendale: la normativa ostacola le imprese?

La gestione della posta elettronica aziendale è diventata un tema scottante per le imprese italiane, soprattutto dopo le recenti indicazioni del Garante per la privacy che impongono la conservazione dei metadati per un massimo di 21 giorni. Questa disposizione ha suscitato molte critiche, poiché viene percepita come un tradimento della riforma dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, modificato dal Jobs Act del 2015 per chiarire l’uso degli strumenti digitali in ambito lavorativo.

Il quadro normativo e le sue contraddizioni

L’articolo 4 dello Statuto è stato cambiato per consentire alle aziende di utilizzare strumenti digitali per esigenze organizzative e produttive, senza dover ottenere un’autorizzazione sindacale o pubblica. Tuttavia, sia la giurisprudenza che il Garante per la privacy sembrano interpretare la normativa in modo restrittivo, limitando fortemente la conservazione dei metadati relativi alla posta elettronica aziendale.

Nel provvedimento del novembre 2024, il Garante ha stabilito che la raccolta e la conservazione dei metadati non possano superare i sette giorni, estendibili a 21 solo in casi eccezionali. Superato questo limite, un’email dovrebbe rimanere priva di data, mittente e destinatario, creando notevoli difficoltà operative per le imprese.

L’indirizzo di posta elettronica assegnato al dipendente (@nomesocieta.xx) è di proprietà dell’azienda, e il dipendente non dovrebbe nutrire alcuna aspettativa di riservatezza. Tuttavia, sia la giurisprudenza sia il Garante della privacy adottano un approccio diverso.

Le criticità per le aziende

Queste restrizioni creano ostacoli significativi per le aziende, soprattutto considerando che in altri Paesi europei è sufficiente un’informativa ai dipendenti senza necessità di autorizzazioni preventive. Inoltre, la giurisprudenza recente complica ulteriormente il quadro, limitando i controlli difensivi a soli casi di sospetto fondato di illecito, escludendo ogni verifica preventiva.

Questa situazione genera incertezza normativa e rischi di sanzioni, poiché molte aziende non dispongono di policy interne sufficientemente dettagliate sull’uso della posta elettronica aziendale.

Soluzioni pratiche per le imprese

Per evitare problematiche legali, gli esperti consigliano di vietare l’uso privato degli account aziendali, esplicitandolo chiaramente nelle policy interne e in ogni comunicazione email. Una soluzione efficace potrebbe essere l’adozione di caselle di posta collettive per gruppi o reparti (es. commerciale@azienda.it), eliminando gli account individuali che potrebbero indurre i dipendenti a pensare di avere una sfera di riservatezza.

Queste misure organizzative permetterebbero alle imprese di rispettare le rigide normative italiane senza compromettere l’efficienza operativa e la sicurezza delle informazioni aziendali.


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Paragon, Nordio: “Nessuna persona intercettata da polizia penitenziaria”

Emergono nuove rivelazioni sullo scandalo Paragon, lo spyware di produzione israeliana utilizzato per spiare giornalisti e attivisti in Italia. Un’indagine condotta con il supporto di CitizenLab di Toronto ha rivelato che Luca Casarini, capomissione di Mediterranea Saving Humans, è stato sorvegliato per un anno, a partire dal febbraio 2024. La notizia ha scosso il mondo politico e giornalistico, spingendo la Federazione nazionale della stampa italiana e l’Ordine dei giornalisti a presentare una denuncia contro ignoti alla procura di Roma.

Nordio respinge le accuse, ma le polemiche infiammano il Parlamento

Durante il question time alla Camera dei Deputati, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha risposto alle accuse avanzate dal deputato Davide Faraone di Italia Viva, negando categoricamente qualsiasi coinvolgimento della Polizia penitenziaria: “Nessuna persona è mai stata intercettata da strutture finanziate dal Ministero della Giustizia nel 2024. Certa stampa e chi fa insinuazioni non vere, magari ne risponderà”.

Le dichiarazioni del ministro, tuttavia, non hanno placato le polemiche. Faraone ha criticato l’incoerenza del Governo: “Ieri ci avevate detto che non potevate rispondere perché c’è il segreto di Stato, e oggi spiattellate tutto in Aula. Qui c’è una storia che va raccontata una volta per tutte: chi ha utilizzato Paragon e per quali finalità?”.

Anche Federico Fornaro, deputato del Partito Democratico, ha attaccato duramente l’esecutivo: “Non rispondendo, state alimentando voi i sospetti di un uso improprio e grave di questo strumento. Invece di chiarire in Parlamento, voi secretate: di cosa avete paura?”.

Il Pd accusa: “Governo Meloni campione di scaricabarile”

La segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein, ha denunciato l’atteggiamento del Governo: “Dopo l’inquietante liberazione di Almasri, Giorgia Meloni continua a fuggire dalle sue responsabilità, ora anche sul caso Paragon. Il Paese merita risposte chiare: chi spiava giornalisti e attivisti e per quale motivo?”.

CitizenLab e Mediterranea rivelano dettagli inquietanti

Secondo l’analisi di CitizenLab, l’attacco a Luca Casarini è iniziato nel febbraio 2024 con tecniche sofisticate di “social engineering” mirate a compromettere i suoi account e quelli delle persone a lui vicine. La Ong Mediterranea ha dichiarato che l’obiettivo era costruire una “catena di sorveglianza” culminata nell’uso di Graphite, uno spyware militare in dotazione esclusiva a enti governativi.

La vicenda si complica ulteriormente con la scoperta che lo spyware è stato utilizzato anche contro Francesco Cancellato, direttore di FanPage. Il sottosegretario Alfredo Mantovano ha dichiarato che le informazioni divulgabili sono già state fornite, alimentando ulteriori dubbi sull’operato del Governo.

I giornalisti reagiscono: “Difendere la libertà di stampa”

Fnsi e Ordine dei giornalisti hanno denunciato una grave violazione dei diritti costituzionali e della libertà di stampa. “Non possiamo attendere oltre. Se il Governo non chiarisce, ci rivolgeremo alla magistratura”, ha dichiarato Carlo Bartoli, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti.

Il presidente della Fnsi, Vittorio di Trapani, ha sottolineato la gravità della situazione: “Un giornalista è stato spiato con un sistema in uso esclusivamente ad apparati statali. Se è stato lo Stato italiano, serve chiarezza immediata”.


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Google versa 326 milioni al Fisco italiano: la Procura di Milano archivia le indagini

Google ha saldato un conto da 326 milioni di euro con il Fisco italiano, portando così alla richiesta di archiviazione delle indagini per evasione fiscale da parte della Procura di Milano. L’inchiesta riguardava la società irlandese Google Ireland Limited, accusata di aver omesso la dichiarazione e il pagamento delle imposte sui redditi prodotti in Italia tra il 2015 e il 2019. La notizia arriva direttamente da una nota firmata dal procuratore Marcello Viola.

La vicenda fiscale e le accuse

Secondo gli accertamenti condotti dal Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di Finanza di Milano, Google avrebbe utilizzato una stabile organizzazione occulta in Italia, costituita da server e infrastrutture tecnologiche, per offrire servizi digitali senza dichiarare i redditi prodotti nel Paese. L’indagine ha evidenziato anche l’omessa presentazione delle dichiarazioni annuali di sostituto d’imposta relative alle ritenute sulle royalties pagate alle società estere del gruppo.

È stato ricostruito l’intero giro d’affari di Google in Italia, in particolare i ricavi derivanti dalla vendita di spazi pubblicitari, sui quali la società non avrebbe versato le imposte dovute.

Precedenti e risoluzione del contenzioso

Non è la prima volta che Google chiude un contenzioso fiscale con l’Italia. Già nel 2017 aveva versato 306 milioni di euro per sanare pendenze tributarie relative ai 15 anni precedenti. In questa occasione, Google Ireland Limited ha optato per un accordo di adesione all’atto di accertamento, definendo così in via tempestiva la sua posizione fiscale e regolarizzando le pendenze con il versamento in un’unica soluzione dei 326 milioni di euro, comprensivi di imposte, sanzioni e interessi.

L’impatto del “modello Milano”

L’inchiesta è stata coordinata dai pm Giovanna Cavalleri e Giovanni Polizzi e ha messo in luce un presunto ammontare di evasione fiscale vicino ai 900 milioni di euro. Il “modello Milano”, che combina verifiche fiscali, accertamenti tributari e indagini penali, ha permesso alla Procura di recuperare circa 2 miliardi di euro negli ultimi tre anni, a beneficio delle casse dello Stato.

Con la richiesta di archiviazione delle indagini su Google, si chiude un altro capitolo delle inchieste della Procura di Milano sui giganti del web, un settore sempre più al centro dell’attenzione fiscale in Europa e nel mondo.


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